del gentiluomo del faro
Batteva ogni quarto d'ora, anche di notte, così impedendomi di dormire anche in tarda mattinata. Vita d'hotel. Quel parroco già di giorno cercava di raccogliere consensi sottolineandoli di notte con le sue campane bronzee e poi con le sue carampane nere di giorno. Piemonte montuoso e campanilista, così basso e provinciale in confronto alla sommità tibetana. Fastidioso da digerire, scendendo verso il mare.
Ormai c'è sempre il mare in ogni cosa che scrivo, anche se non c'entra niente, messo lì tanto per, come in tutte le canzoni di Fabio Concato. Scendendo stasera leggo sul display autostradale che ci sono i Man at Work da evitare a chilometro uno. Ligabue in radio da radiare a chilometro zero. Man at work non ne vedo, li avranno già schiacciati i torinesi nell'impanatura, esausti da code lunghe come processionarie di grissini rubatà giù da lì, dal Monviso al Mediterraneo. Vacci piano, qui al valico tra il sale e il sale si sono spiaccicati in molti.
Mi guardò così male e di traverso che per un momento pensai attraversasse tutta la cucina per venire a mettermi le mani addosso. Aveva anche in mano un oggetto che non identificai bene, e neppure lo chef si rese ben conto delle intenzioni dell’ultimo dei brucia padelle impiegato in quel ristorante. Eh si, era proprio un coltello, e anche bello grosso.
Se l’avesse visto ad esibirmi la minaccia lo
avrebbe fulminato seduta stante con lo sguardo, e poi avrebbe regolato i conti
a fine servizio, nello spogliatoio, come si fa tra uomini veri, fuori dallo
sguardo degli altri, e comunque a fine giornata.
Le cose vanno chiarite subito, e gli stracci
sporchi lavati in casa, dopodiché, prima di chiudere la giornata, ci si ritrova
tutti al pass per un bicchiere di birra o di Champagne, mettendo così un sigillo
su un altro servizio portato a termine, comunque. E domani è un altro giorno, e
nulla deve turbare il lavoro del giorno dopo. Ma lui era un mite, e quindi fece
finta di nulla, guardando verso di me e mandandomi un messaggio cerebrale:
lascialo perdere…
Per farsi rispettare in cucina a volte basta
uno sguardo, a volte una parola, ma se lo chef non è così autoritario ed
autorevole si possono creare un mix di situazioni che potrebbero (se va bene)
sfociare in una divertente goliardata, che però nasconde altri aspetti.
Mascherare la propria insicurezza con un gesto
provocatorio fa parte del carattere di molti che lavorano in cucina. Potrebbe
essere uno straccio il protagonista, quello che si tiene appeso al grembiule
all’altezza della vita, quella specie di asciugamani che dovrebbe servire in
cucina per mantenere le mani asciutte e pulite, ma che in casi diversi, se ben
umido, poter diventare un frustino.
Quell’altro usava una pistola ad acqua
compressa, lui, di poche parole ma di grande sostanza, oggi diventato uno dei
più apprezzati chef italiani, senza molte parole ma con l’occhio attento e
lungo, oltre che dotato di buona mira. E quando qualcuno faceva qualche cosa di
sbagliato, il richiamo arrivava da distante, con uno schizzo di acqua
sufficiente a provocare un piccolo livido, quale pro memoria per il prossimo
futuro.
E quello che rivoleva la piastra di acciaio a fine servizio come nuova, con la seppiatura disegnata a cerchi concentrici da ripristinare a decisi e gentili colpi di paglietta. Quello che se avevi schizzato del nero di seppia sulle piastrelle bianche mentre pulivi il pesce ti imponeva con uno sguardo più che convincente di andare a prendere della vernice bianca e un pennellino... da ripassare con precisione tra un piastrella e l'altra... a mezzanotte.
E quello che rivoleva la piastra di acciaio a fine servizio come nuova, con la seppiatura disegnata a cerchi concentrici da ripristinare a decisi e gentili colpi di paglietta. Quello che se avevi schizzato del nero di seppia sulle piastrelle bianche mentre pulivi il pesce ti imponeva con uno sguardo più che convincente di andare a prendere della vernice bianca e un pennellino... da ripassare con precisione tra un piastrella e l'altra... a mezzanotte.
Nulla di grave, l’importante è non eccedere, e
mai impugnare il manico di un coltello, questo no, anche se lui in quel momento
era molto sotto stress perché due clienti gli avevano mandato indietro lo
stesso piatto. Era da capire, ma prendersela con me era eccessivo. Io sono i
tuoi occhi in sala, ricordati, ti devi fidare: quel piatto l’hai sbagliato due
volte ed io te lo devo riportare indietro, al pass, purtroppo davanti a tutti,
è inevitabile, perché adesso lo devi rifare sotto gli occhi di tutti, ma non
devi pensare che ciò sia umiliante, è semplicemente la conseguenza della tua
distrazione e della tua superficialità, e quindi questo ti aiuterà a crescere
nella tua professione.
La cucina di un ristorante può diventare una
caserma? Un luogo militarizzato con ufficiali a comandare e soldati ad
obbedire? Mi dicono di si, mi dicono che alcuni grandi chef la intendono così la giornata in cucina. Silenzio
assoluto e obbedienza agli ordini.
Io l’ho sempre invece inteso come uno
spettacolo teatrale, dove regista, attori e interpreti vari contribuiscono alla
messa in scena di una piéce in diretta. E alla fine, si tira giù il sipario e
si chiude la giornata bevendosi tutti insieme una birra fresca o un calice di
Champagne.
Ma quello chef era invece così mite da non
riuscire neppure ad alzare la voce, figuriamoci le mani, nei confronti di
quell’altezzoso e permaloso cuochino, e neppure desideroso di bersi una birra o
una coppa di Champagne a fine servizio. Lui preferiva un calice di dolce
Moscato spumante da cinque gradi alcolici.
Niente stracci bagnati, nessuna pistola ad
acqua compressa, nessun sifone ghiacciato da spruzzare addosso; piatti lasciati appositamente sotto la
salamandra o manici di tegami resi incandescenti prima dell’uso. Lui era ed è
uno chef mite, che anche a voce bassa e senza vessazioni nei confronti dei suoi
subordinati ha conseguito per due volte almeno una stella Michelin,
festeggiando con un dolce calice di Moscato. Rivedo il mare. Dai, anche questa è andata, malinconica ma conclusa come una di Concato.
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