alla ricerca delle emozioni lungo le strade asfaltate e non: del vino, del cibo e della musica
venerdì 30 luglio 2010
Puligny Montrachet, Domaine Leflaive. Ancora una gran donna biodinamica
Questa frase, qui riprodotta con l’approssimazione del ricordo, mi colpì nel profondo della mente e mi diede l’energia e la voglia di avvicinarmi ai vini del Domaine D’Auvenay.
I vini del Domaine Leflaive già li conoscevo , ma questa affermazione di Enzo Vizzari, pubblicata a suo tempo sul defunto Grand Gourmet mi spinse ad approfondire meglio la questione
Perché solo i grand cru ?
Chez D’Auvenay è tutto eccellente. Qui solo i grand cru?
Un’altra domanda, stimolata dal fatto che i vini del Domaine Leflaive venivano fatti da quel grande vigneron che si chiama Pierre Morey, a suo tempo impiegato anche presso il nobilissimo Domaine Comtes Lafon di Meursault. Perché Pierre Morey non riusciva a proporre una qualità simile a quella che otteneva dai vitigni di Madame Leflaive nei vini che uscivano sotto la propria etichetta?
Come sempre in questi casi è il bicchiere a dire la verità.
Il vino nel bicchiere, un colpo d’occhio, un approccio al naso e le risposte importanti saranno inviate al cervello tramite la vista e l’olfatto. Il gusto sarà a quel punto solo una non richiesta conferma di quanto già compreso con la prima indagine sensoriale.
Perché i vini di Pierre Morey non siano all’altezza di quelli che vinificava per Madame Leflaive per me rimane un mistero, o forse sarà semplicemente dovuto dalla diversità dei terreni, invece che siano solo i grand cru a destare la maggiore impressione tra la gamma di denominazioni disponibili sotto l’etichetta Domaine Leflaive è abbastanza vero. Nel senso che la tavolozza di territori di cui dispone il mitico Domaine di Puligny (25 ettari) è talmente ampia che le differenze rilevabili sono assolutamente didattiche e le nobiltà crescenti dei terroir sono evidenti quanto osservare una gradinata Possedere appezzamenti in quattro dei cinque grand cru della divina collina è di per se stesso già un valore teorico altissimo, in quanto consente già internamente al Domaine di rendersi conto delle differenze rilevabili tra un sontuoso e cattedralico Montrachet, l’estrema finezza di un Chevalier, un rotondo , grasso e untuoso Batard, da raffrontare ulteriormente con il vicino Bienvenues Batard per coglierne le sottili sfumature. Manca solo Criots all’appello, ma per quello c’è a disposizione l’altra Madame
Purtroppo non ho mai avuto il piacere di bere il Montrachet di Madame Leflaive, ma fortunatamente gli altri tre si, e quindi potendo prendere atto che l’affermazione di Vizzari era condivisibile. Però scorrendo la scala teorica di nobiltà di territori, è altrettanto rilevabile quanto il Puligny premier cru Pucelles sia vicino ai quattro grandissimi più di quanto la mappa dei vigneti possa evidenziare. Pucelles è un terroir che ha poco di meno dei grand cru con cui confina, e a voler far anche due righe di conti, è uno dei premier cru più costosi del comune di Puligny quello rintracciabile sotto l’etichetta Domaine Leflaive.
E quando il mercato ti premia con un prezzo molto diverso vorrà dire qualche cosa.
Gli altri premier cru: Folatieres, Combettes e Clavoillon sono generalmente una o due spanne sotto, anche se in determinati millesimi, come il 2006, Folatieres non è apparso inferiore agli altri, ma si tratta di eccezioni. La straordinaria finezza che ha sempre contraddistinto i vini bianchi del Domaine faro del comune di Puligny non è mai stata persa, pur attraversando il guado della biodinamica ed il passaggio di consegne tra il vecchio régisseur, Pierre Morey, ed il suo successore, Eric Remy.
Anna Claude Leflaive, la dama di ferro poco incline a vezzi e orpelli, incide profondamente con la propria convinzione sulla biodinamica applicata, quella vera, quella che ti arriva nel bicchiere pura e fragrante, lontana dalle mode e dall’opportunismo. Qui i millesimi da bere sono parecchi, perché l’esperienza e la convinzione hanno seguito armonicamente le varie evoluzioni climatiche degli ultimi due decenni, e quindi scarterei solo la 2003 dell’ultimo decennio, mentre del precedente saranno probabilmente arrivati con sofferenza alla soglia del 2010 le annate 1998,1997,1994 . Faccio questi riferimenti che potrebbero apparire lontani perché questi vini in gioventù si danno veramente poco. Qui, più che da altri produttori, una decina di anni d’attesa e quanto mai auspicabile e consigliata. Oggi si potrebbe bere con qualche soddisfazione un 2001, un 2002, e la reperibilità è tutto sommato non molto complicata per alcuni premier cru, mentre i prezzi dei grand cru raccomandati da Vizzari non sono affatto leggeri, ma se visti in paragone a quelli dell’altra grand Madame , beh, allora si può fare. Un bel Batard 2001 , come quello che ho bevuto l’ultima volta che sono stato ad Orta a Villa Crespi è un esperienza fattibile , ripetibile, e difficilmente dimenticabile. Solo un accortezza, lo dico perché sono in molti a confondersi, per disattenzione o superficialità.
Questo è il mondo del Domaine Leflaive di Anne Claude Leflaive, da non confondere con Olivier Leflaive, onesta maison de negoce che ha sede nel medesimo comune di Puligny Montrachet
Il Guardiano del Faro
tonificanti e corroboranti come i vini del Domaine Leflaive i Gaslght Anthems di American Slang sono il degno accompagnamento:
mercoledì 28 luglio 2010
Domaine de Trevallon – Eloi Durrbach
La sproporzione era quanto mai evidente.
Come poteva essere possibile che lo stesso vino fosse nel listino di un noto importatore italiano per una decina di euro quando la medesima bottiglia e medesima annata stava in carta al Louis xv a 180 euro ?
O lo chef de cave del Grand Hotel de Paris aveva perso il senso della misura oppure ne sapeva più di quanto immaginabile. E dall’altra parte l’importatore o si era dimenticato di aggiornare il costo storico del prodotto oppure si era reso conto che fosse meglio disfarsene.
Avevo imparato a conoscere i vini di Eloi Durrbach da pochi anni e ne apprezzavo le caratteristiche primarie da vino giovane per la sua finezza, per la trama rarefatta, la leggerezza alcolica e l’aderenza territoriale del suo bouquet che parlava di sud senza sembrare profondo sud.
Poteva un vino meridionale derivato da cabernet sauvignon e syrah che si reggeva su soli 12 gradi di alcol invecchiare così bene da poter essere venduto a 180 euro ?
Portammo via la prima cassa e poi la seconda rimasta e così verificammo che aveva ragione lo chef de cave del Louis Xv . Trevallon rouge 1988 era un grandissimo vino.
La sensazione alla cieca era di avere nel bicchiere un grande Medoc degli anni 60-70 ( prima della Parkerizzazione) , con il tipico tono di rubino chiaro rarefatto. Al naso però l’evoluzione del naso primario del cabernet virava coerentemente verso il goudron assistito da una fine speziatura di pepe e cannella, olive nere, foglia d’alloro e genericamente dalla garrigue provenzale, a cui la vigna portò via il terreno.
Proprio la percentuale alta di cabernet sauvignon e il sorprendente aggiornamento di quella A.O.C. portò Trevallon fuori dalla denominazione locale Baux de Provence, dovendo quindi accontentarsi non senza drammi di quella di V.d.P. du Bouches du Rhone. Etichettatura che anche per questo motivo gioca da una quindicina di anni sempre su elementi artistici diversi, frutto dell’amicizia storica tra la famiglia Durrbach ( papà René fu pittore e scultore) e personaggi del calibro di Pablo Picasso o Fernand Leger.
Tutto nacque nel 1973 quando la vigna cominciò a prendere il posto della garrigue e i primi tre ettari di vigna si prepararono a dar vita al primo vino nel 1976 .
Oltre a cabernet sauvignon e syrah, che compongono l’uvaggio di Trevallon rouge, furono piantati in seguito anche tre vitigni bianchi, due dei quali tipici del sud : roussanne e marsanne, oltre al solito chardonnay. Trevallon blanc rivela perfettamente le sue origini, comunicando le sensazioni minerali del suo territorio (calcare roccioso) e note di erbe aromatiche , fiori bianchi , arrotondate dalle sensazioni burrose portate dallo chardonnay.
L’esposizione nord preserva inoltre, quando possibile, una certa freschezza ed una discreta acidità al vino, consentendogli un buon invecchiamento. Trevallon blanc e rouge sono due grandi esempi di eccezioni alla regola, di come si possa partire dal nulla, su un terreno dove non c’è nulla di attinente, piantando vitigni a propria discrezione, e nel giro di pochi anni arrivare alla notorietà internazionale, per una volta non costruita artificiosamente dal marketing, ma solo per meriti reali dovuti all’evidente alta qualità che ha portato questo Domaine ad essere tra i più reputati in tutto il sud francese.
Non aggiungerei altro, questa è una zona della Provenza da visitare personalmente per carpire il fascino di questi luoghi così particolari dal punto di vista territoriale. Les Alpilles sono quanto di più contorto e affascinante, la luce che arriva in un modo diverso, la vegetazione a tratti esuberante e a tratti totalmente assente. Les Baux de Provence poi condensa tutto quanto, ma altri villaggi della zona sono assolutamente da visitare. Per ogni dettaglio sui vini di Trevallon c’è invece l’eccellente sito internet da visitare, molto accurato e profondissimo di informazioni, che arrivano a parlare ancora anche di quel Trevallon rouge 1988 definendone l’apogeo intorno al 2010. Proprio ora. Peccato non averne più.
Il Guardiano del Faro
sabato 24 luglio 2010
Grevrey Chambertin biodinamica, Rossignol Trapet
Si, se c’è una tappa fissa irrinunciabile in ogni piccolo tour in Cote de Nuits questa è dai simpatici ed ospitali fratelli Rossignol Trapet.
E’ un piacere conversare con loro di ogni peculiarità delle singole denominazioni del loro comune che conoscono pietra per pietra, chiamando per nome ogni singolo lieu dit, immaginando di avere davanti la carta delle appellations. La carta è in realtà appesa sulle mura di pietra della loro bella e vasta cantina, ma a loro non serve, hanno in mente dove stanno i terreni loro e degli altri meglio degli impiegati del catasto. E allora spostiamo il discorso sulla biodinamica, che applicano da diversi anni ma senza aver fretta di certificazioni. I vini parlano per loro. Bicchiere in mano e giù in cantina per il consueto tour a la pipette e finale allo stappo di qualche millesimo diverso dall’ultimo in botte per verificarne l’evoluzione. I loro vini sono brillanti, vivi, lucenti, profumati intensamente, golosi da bere.
Cinque premier cru e tre grand cru dominati a seconda delle annate talvolta dal sommo e austero Chambertin e talvolta dalla sfacciata Chapelle Chambertin che si apre subito al naso e pervade il palato con tutta la sua gourmandise . Spesso subiscono l’annata, ma sostanzialmente, eviterei solo il 2003 , dove si sono lasciati un po’ sorprendere dalla canicola, e la solita triste 2004, essendo loro produttori quasi unicamente di pinot noir.
Caratteri evidenziati in una piccola verticale di Chambertin delle annate 2002 – 2003 – 2004 – 2005 – 2006 , dove nella prima (nonostante la buona annata classica) non appariva ancora chiaramente quale purezza di frutto, quale fresca e pulita gamma aromatica sarebbero stati in grado di trovare dopo le due annate diametralmente opposte che seguirono.
Certo, far un grande 2005 non è stato un problema per quasi tutti i vignerons della regione, ma qui il risultato è stato stratosferico, al punto da collocare i tre grand cru e almeno un paio di premier cru tra i 95 e 99 punti su cento .
Poi ancora la 2006, che riesco a preferire perché più fine è più aderente sul piano squisitamente territoriale , più truffes e meno corbeilles de cerises mature .
Alla fine della degustazione è possibile anche acquistare qualche bottiglia al Domaine, a prezzi che scorrono mediamente tra i 20 e gli 80 euro . Molto interessante in questo senso il rapporto qualità prezzo dell’appellation fuori dal comune ( in tutti i sensi ) , rappresentata dal Beaune Teurons ( terre rotonde ) , così definito per la facilità di lavorazione del terreno.
Vino buonissimo e facile anche da bere. Vino golosissimo da buttar giù senza ritegno e che costa il giusto ( 20- 25 euro ) e che rappresenta oltre che una delle migliori riuscite sul comune capitale del distretto vinicolo della Cote d’or, anche trai migliori rapporti qualità prezzo di tutta la zona.
Ma ovviamente i punti salienti da raggiungere saranno la Chapelle e lo Chambertin, magari attendendo con pazienza i grandissimi 2009. La disponibilità è mediamente garantita perché Rossignol Trapet possiede il 10 % del terreno di Chambertin ( 1,60 ha ) , mentre più rara la Chapelle , di cui il Domaine dispone di nuovo del 10% del totale, ma che è costituita da soli cinque ettari e mezzo, e dunque ne rimane comunque pochino. Latricières è il terzo grand cru di cui il Domaine possiede anche in questo caso del 10 % del totale ( 0,7 ha ) e quindi nel complesso, potendo pure contare sull’alta qualità coerente a tutti i premier cru, la quantità di bottiglie non manca, anche se va tenuto conto che la fama del Domaine è in crescita esponenziale e gli acquirenti cominceranno a mettersi in fila davanti alla porta del numero 4 di Rue de La Petite Issue.
Guardiano del Faro
Considerata l'età, anche gli Avi Buffalo possono sperare in un futuro radioso
lunedì 19 luglio 2010
la chanteuse dei Monti Iblei
La comparsa di Arianna Occhipinti nel mondo del vino coincide abbastanza con la mia totale sterzata a consumatore di soli vini naturali. Dopo le prime convincenti bevute dei suoi Frappato e Nero d'Avola, scatta un autentico 'amore' grazie anche alla sua bellissima lettera a Veronelli dove traspare la sua passione per Nick Cave, inevitabile doverla conoscere. La conoscenza ha poi portato a scoprire un grande attaccamento alla sua terra, che non è solo vino ma anche un olio straordinario, i capperi e tutto quanto è il frutto di quella terra fantastica di Sicilia. Autentica ambasciatrice, o meglio Chanteuse, dei Monti Iblei. Eh si, perché in realtà lei è ormai la più grande interprete della sua terra ed il francesismo è avvalorato dal suo fantastico Frappato che, da ignorante, per me è molto borgognone dove traspare grande finezza, eleganza e freschezza.
sabato 17 luglio 2010
Non avrei voluto essere li'
Negli occhi c'era ancora l'esibizione -micidiale-degli Uncle Tupelo di qualche anno prima a un hobo festival, appena prima dello scioglimento del gruppo. L'inizio dell'avventura Son Volt con "Trace",nonostante un paio grandi grandi canzoni (Windfall,Tear stained eye) mi deluse, praticamente un suo disco solo con una band appena conosciuta. Col secondo "Straightaways" le cose andarono decisamente meglio, gruppo in palla, belle canzoni dall'inizio alla fine.Quando si presento' al Jux Tap di Sarzana-locale che per anni al giovedi' ha portato il meglio della musica d'autore e roots americana-era appena uscito il primo disco solo, cercando nuove vie con risultati alterni. In coppia col fido Mark Spencer (che fece il suo onesto lavoro) trascorsi un'ora e mezza infinita, piatta e desolata come lo stato dell'Iowa, nessun ricordo dei Tupelos, canzoni in fotocopia, svogliato, accompagnandosi male alla chitarra. Da quel giorno non ho piu' sentito un suo disco, cosa che spesso mi succede dopo lo "prova" live. Un giorno o l'altro ricomincerò', per adesso aspetto di sentire dagli amici buone impressioni sul tour dei Son Volt di questi giorni.
A proposito di serate terribili, una volta vidi Richard Buckner, uno che nella voce monocorde ha delle similitudini con Farrar, talmente ubriaco da non ricordarsi le parole delle sue canzoni, a parte un paio e una di quelle fu, non a caso,una cover di Townes, sommo paladino della desolation row che una volta disse "Musicians practice.Folksingers just get drunk and go to the gig"
Gilles e Catherine Verge Questi due simpaticoni invece non mi deludono mai, l'ultimo stappo fu un Bouleze (chardonnay obviously) 2005 minerale, ma niente a che vedere con l'acqua.
Il ragazzo ci sa fare quando i suoi demoni rimangono in disparte:
by Hazel
mercoledì 14 luglio 2010
Parliamo di Viognier? Condrieu Georges Vernay
L’osmogenesi è un carisma posseduto da alcuni Santi. Odori di santità.Quello di violette è stato spesso associato a Padre Pio.
Il simpatico episodio di cui vi voglio far partecipi oggi è relativo all’ingenua risposta che ricevetti da una sommeliera professionista piemontese il giorno che gli proposi di assaggiare insieme quello che evidentemente era il primo Condrieu della sua vita.
“la senti la violetta? “
“in un bianco?”
“ si, anche se non è un rosso piemontese qui dovrebbe uscirti anche la nota di violetta che senti spesso su rossi piemontesi..”
“ no, non ce la faccio, ma senti, ma con la violetta tu vedi anche Padre Pio”.
Questa è in sintesi quello che spesso capita con quei sommelier che hanno imparato la lezione a memoria e guai a cambiargli un riferimento, se no vanno in tilt.
Il Condrieu è un vino derivato dal gentile vitigno Viognier, ricco di profumi vicini all’albicocca, la mandorla e la pesca bianca ( …mi scusi Madame Leroy se ogni tanto ricado nel peccato mortale di usare descrittivi terreni…chiedo venia ma devo cercare di farmi capire…) e soprattutto è evidente la violetta che vorresti incontrare sul collo di una bella ragazza. Naturale, non quelle puzze provenzali Grassois che farebbero passare la voglia ad un' armadillo.
Quel che si incontra sul collo e poi in pancia alle bottiglie di Georges Vernay è proprio quel carattere delicato e profumato, acido il giusto e quando serve autorevole e consapevole, come chi sa il fatto suo ma non ti fa sentire deficiente quando vuole aprirsi al dialogo.
Questo piccolo Domaine , grazie all’intraprendenza del vecchio Georges, ed oggi della figlia Christine , ha avuto il ruolo di ambasciatore nel mondo vinicolo portando la denominazione Condrieu sulle migliori tavole del mondo.
Ruolo secondo me non usurpato essendo i vini di Condrieu tra i più originali del pianeta. Diversi totalmente da ogni altro Viognier e diversi da ogni altro vitigno.
Purezza minerale che sostiene il bouquet di cui sopra, di facile approccio gustativo per l’apparente bassa acidità , ma , quando derivati da vecchie vigne a basso rendimento, di una profondità e di una persistenza molto lunga e gradevole. Eccellente aperitivo, ma bevendo le cuvèe più complesse si potrà abbinarlo a piatti di un certa complessità. Le etichette di Vernay dove cercare i caratteri più espressivi sono “Coteau du Vernon” e “ Les Chaillèes de l’Enfer” , ma anche l’ altra : “Les Terrasses de ’Empire” è degnissima sorella , mentre più semplice e beverina sarà “ Les Pied de Samson” , vin du pays ricavato da vigne giovani declassate anche per l’altimetria non ritenuta idonea. Oltre alla decina di ettari di Viognier, di cui una parte declassata perché posti ad un altimetria incompatibile con i protocolli dell’azienda, il Domaine possiede anche otto ettari di Syrah, da cui trarre alcuni vini sull’appellation generica Cote du Rhone, St. Joseph e soprattutto nel lieu dit Maison Rouge in Cote Rotie, meno di un ettaro di vigne vecchie oltre 40 anni da cui viene ricavato un vino molto buono ma che ha bisogno di molta bottiglia per digerire il lungo passaggio in legno (22 mesi) anche se solo per il 20 % in barrique nuove ma secondo me si sente un po’ troppo in gioventù.
La produzione annuale dichiarata è di circa centomila bottiglie, che è già una quantità significativa per chi basa il proprio lavoro sulla ricerca di massima qualità. Infine , per chi questa estate si trovasse a passare in autostrada tra Lyon , Valence e Vienne consiglierei una tappa per degustare i vini direttamente sul posto. Il Domaine comunica infatti sulle principali guide la disponibilità a ricevere ospiti nei normali orari d’ufficio dal lunedì al venerdì.
Però, a quel punto, non si potrà fare a meno di salire anche sullo sperone roccioso dell’Hermitage o sulle colline roventi della Cote Rotie da cui ammirare la spettacolare sinuosità del Rodano.
A bientot GdF
Fa caldo, molto caldo, un po' di freschezza puo' darcela l'ultimo disco del grande Tom..
lunedì 12 luglio 2010
Philippe Pacalet
Gli armadilli sono ospitali e gli scritti del Guardiano del Faro, grande conoscitore di vini francesi, e gia' pubblicati sul wine blog di Luciano Pignataro), saranno qui riproposti, cominciamo con Pacalet nostra vecchia conoscenza..
Sarà stato sei o sette anni fa , ora non ricordo con precisione.
Ricordo invece precisamente i toni della piacevolissima telefonata intercorsa con Fabio Luglio, l’uomo delle Triple A della Velier di Genova, chiacchierando su prodotti che mi interessavano per allestire una carta vini per un ristorante. Si parlò inevitabilmente di Francia, che Fabio conosce metro quadro per metro quadro sia per quanto riguarda il mondo vinicolo che quello dell’alta gastronomia, fino al momento di imbarazzo totale in qui venni a trovarmi quando con la massima disinvoltura mi disse di avere a disposizione i vini di un nuovo produttore in Cote d’Or che lo avevano colpito come quasi mai gli era accaduto in passato.
La presi un po’ con le molle questa informazione, e anche con qualche diffidenza a dire il vero.
Il caso volle, però io non credo al caso ma piuttosto alla volontà di far accadere le cose, che a poche settimane di distanza da quella telefonata mi ritrovai con un amico a Nizza nel covo biodinamico che fa di nome La Part des Anges a decidere con quale bottiglia iniziare ad ammazzare la serata.
Quell’etichetta così strana in confronto a tutte le altre così classiche attirò l’attenzione immediatamente e il ricordo dell’informazione avuta tempo prima chiuse il cerchio.
E così stappammo insieme a Fabrizio la prima bottiglia di Philippe Pacalet, poi la seconda, poi la terza.
Rimanemmo felicemente sorpresi dalle caratteristiche dei suoi vini e quindi la questione non si chiuse certo quella sera. Perchè siccome nulla è andato nuovamente per caso, ecco che a breve distanza di mesi fu organizzata nel medesimo bar a vin una serata con Philippe Pacalet.
Seduto a fianco del produttore contai 68 stappi per 22 persone (donne e bambini inclusi) e mi persuasi che oltre a quello che diamo per scontato sia fondamentale avere tra le caratteristiche di un buon vino, anche la facile bevibilità e la digeribilità siano ugualmente importanti prima di proporre una bottiglia ad un pubblico semplice o evoluto.
Avendo deciso a cavallo del millennio di iniziare una produzione propria dopo fruttuosi anni passati a vinificare per il prestigioso Domaine Prieurè Roch (fondato nel 1988 dal nipote di Lalou Leroy), Philippe ha intrapreso una attività da negociant anomalo, privilegiando le parcelle dei diversi cru, meglio se “vecchie vigne” , seguite e coltivate durante l’anno secondo le sue indicazioni, le sue regole, i suoi protocolli.
In sostanza, arrivando all’acquisto di frutto sulla pianta appartenente a diversi proprietari che avessero garantito una qualità di frutto coerente alla sua filosofia, che tutto sommato molto integralista non è, non volendo neppure etichettarsi come biodinamico, ma accontentandosi a volte del termine biologico.
Prioritaria invece la volontà di difendere le diversità di ogni singolo terroir, preservando possibilmente i lieviti indigeni e quindi in fase di fermentazione evitando l’ utilizzazione di anidride solforosa che è per definizione antifermentativa e che quindi impedirebbe l’espressione ottimale delle caratteristiche del “terroir stesso. Poi un pochino, all’imbottigliamento (fatto a mano per ogni singola bottiglia) ce la mette per cautelarsi. Zucchero invece no. Lo zucchero è una spesa aggiuntiva che ha deciso di non sostenere.
Mano leggera anche sul versante affinamento, dove le pièces utilizzate sono per il 95% vecchie di cinque o più passaggi e quindi praticamente mai sentirete un vino di Pacalet che sa di legno, pur giovanissimo che sia.
L’espressione del vino non potrà dunque che essere vera , cristallina come l’espressione delle persone che non hanno nulla da nascondere.
Se volete sapere com’è stata l’annata in Borgogna stappate un rosso di Pacalet, un vino che non mente e non nasconde nulla.
Si, ma con tutte le denominazioni che copre e che continua a cambiare ogni anno quale scegliere?
In effetti questo è un dubbio che ha pochi motivi di esistere , potendo confidare sulla serietà e la coerenza per tutto il passato decennio.
Personalmente, a livello di cru village, che offrono la soddisfazione di una bella bevuta senza saccheggiare il portafogli, direi che su Gevrey Chambertin e su Chambolle Musigny non si sbaglia. Certo, volendo salire di grado e di blasone ci si può immolare contro un grand cru come Ruchottes Chambertin o sul nuovo arrivato (dal millesimo 2009) Chambertin Clos de Béze che però daranno delle belle soddisfazioni.
I miei millesimi preferiti da Philippe sono poi i millesimi buoni, perché quello che è stato te lo ritrovi nel bicchiere, e quindi 2001, 2002, 2005, 2006, 2009 .
Questo per i rossi. Sui bianchi sono meno entusiasta, perché a parte lo stratosferico Corton Charlemagne (2002 da paura, 2004 notevole e 2009 promettentissimo in arrivo la prossima primavera) il resto dei tentativi non mi sembrano degni del nome che Philippe si è costruito sul Pinot.
Meursault, St.Aubin, Puligny… mah! Perfino a Chablis è salito , ma con esiti alterni. Ma ne riparleremo più avanti, quando le 24 appellations e alcune delle 45.000 bottiglie previste per il nobile millesimo 2009 saranno disponibili anche in Italia. Per ora rimane l’ottima impressione destata dalla recente degustazione in cantina, a la pipette, dove ancora una volta la verità dell’annata è stata facilmente decifrata nel bicchiere.
Alla fine della storia si ritorna all’inizio della storia: ci si ritrova tra due amici e si decide di “esagerare senza esagerare” ? Bene, e allora saranno un paio di bottiglie di buona annata di Pinot di Philippe, da qualunque cru provengano, a sistemare l’umore ed alleggerire lo spirito per l’intera giornata e a garantire un buon sonno senza brutti sogni e poi qualcuno sentenzio':”togli I Led Zeppelin e metti i Creedence” ma questa è un'altra storia.