venerdì 30 settembre 2011

Grandi conferme | Flavio Costa à la carte

- del Guardiano del Faro -

Ne ero abbastanza sicuro, però, e lo sappiamo bene, quando sei sicuro che tutto andrà in un certo modo poi succede sempre qualche cosa di anomalo, o come dicono a Livorno, " si , hai ragione ma non ti credere " , smontandoti così il tuo castello di carte. E se in due settimane che cerco di raggiungere Savona con l'Intercity - per ovvi motivi alcolici - la prima volta trovo tutti i percorsi cancellati da uno sciopero e la seconda volta si guasta il locomotore, allora capisci che di certezze ne restano poche. Nonostante ciò, con una buona dose di ostinazione sono finalmente riuscito a tornare all'Arco Antico a mangiare in santa pace quattro piattini alla carta e ritrovare quella traccia che avevo un po' smarrito durante le ultimi folli kermesse savonesi a base di 24 vini e dodici piatti già programmati per soddisfare sadicamente la fame di conferme. Conferme che invece, come immaginavo, possono invece arrivare solo quando ci si rivolge a preparazioni fatte e finite in funzione di una proposta alla carta, dove tutti i piatti sono studiati, pensati e realizzati a questo scopo, e non sempre replicabili in forma troppo ridotta o amputata di dettagli che alla fine sono quelli che fanno capire che qui c'è sempre quel plus di cucina fine e appuntita che spesso fa la differenza sulla concorrenza.

Il tavolo più prossimo alla cantinetta climatizzata per i vini bianchi...


... da cui pescare questi due bianchi dell'Alto Adige che come al solito si dimostrano all'altezza di una cucina evoluta e piena di sapore . Pinot bianco minerale e di gran carattere, verticale ma non troppo monotematico, perché ricco di sfaccettature in evidenza all'aumentare della temperatura nel bicchiere. Chardonnay rive droite o rive gauche ? Perché non solo a Parigi si ragiona così, ma anche a Chablis, e questo chardonnay non troppo caratterizzato dal varietale si lascia bere come un vino nordico senza fronzoli . Buoni tutti e due, con un plus per il virile pinot bianco.


Sentivo un buon profumo di burro, ma pensavo, è così raro da queste parti, ci sarà una qualche salsa in lavorazione. Perché per fare una grande cucina , anche se stai in Riviera, non puoi rinunciare alle salse e al burro e cavartela sempre con del buon olio. Ecco quindi : Sgombro, castagne, porcini, tartufo nero e burro aromatizzato al finocchietto.


L'insalata tiepida di novellame, borlotti, crema di cipolla di Montoro alla brace e olio di basilico.


In dettaglio, trattasi di teneri moscardini.


Foto non straordinaria ma il piatto assolutamente si, il miglior primo piatto dell'anno, insieme alla carbonara di asparagi di Enrico Crippa. Gnocchi di patate "mantecati" con burrata, granchio e bisque di granchio. Assolutamente da non perdere, tra l'intensità della bisque - che fa la differenza - la dolcezza del granchio e la delicatezza degli gnocchi: ça c'est superbe!


Questo invece parla già da solo, basta guardare per capire : Filetto di San Pietro, bastardi di zucchetta, pomodorini del Piennolo ed emulsione acida di vino bianco all'olio d'oliva. La civilizzazione dell'acido amaro che ti fa venire fame .


Emulsione che invita ad essere raccolta fino all'ultima goccia con l'adeguato pane al basilico oppure con un bel tocco di focaccia calda.


Pre-dessert? No, o anche si. Perché non chiudere la parte salata del pranzo con un ricordo spietatamente territoriale? Tortello di patate, crema di fagiolini e pesto al mortaio. A ricordare che gusto ha un vero pesto al mortaio. Un efficace spot regionale concentrato in pochi centimetri.


E infine quella che viene definita in carta con falsa semplicità : "pesca ripiena" , ma che si rivela essere ben di più buona e complessa del classico da trattoria piemontese.


Champagne defaticante, così, anche se non c'è nessuna fatica da riassorbire stavolta, solo per far un po' di pettegolezzi, il materiale e gli spunti non mancano certo ;-) Da notare sempre la sobria eleganza delle etichette Perriet Jouet, anche se qui il prodotto non è esattamente degno dei mitici Blason de France degli anni '70 / '80 , ma ci rinfresca e ci rinfranca, e tanto basta per oggi. Spegniamo le luci, grazie e alla prossima.


Ristorante Arco Antico
Flavio Costa

Piazza di Lavagnola, 24
17100 Savona
019 820938

-gdf-

giovedì 29 settembre 2011

L'arrière Pays

- del Guardiano del Faro -

Siamo approdati al mare ma arriviamo tutti dall'entroterra, ognuno ha il suo Arrière Pays .

"Sembra quasi un film "normale" l'Arrière-pays, costruito con una semplicità davvero rara, intenso dal primo all'ultimo minuto, alla ricerca del tempo perduto, di un'infanzia lontana."

Il legame tra la terra e il mare: Tonno di coniglio e verdure in agrodolce, salsa d'acciughe

Un grandissimo interprete del suo entroterra, Walter de Battè : 100% vermentino, 100% vignaiolo.

La terra e il pascolo : millefoglie di patate , porcini e formaggio cremoso

L'orto : verdure ripiene di se stesse in salsa estiva di pomodoro fresco e basilico

Il bosco e i campi : pappardelle di farina di castagne con patate, pomodoro e basilico

Stessa regione stessa ragione di De Battè , però è anche l'opposto geografico e di colore : Rossese 2010 di Nino Perrino.

Tornando dai monti: porcini panati e fritti.

Il ritorno dalla pesca: stoccafisso mantecato all'olio d'oliva e polpa di olive taggiasche.

Altro grande interprete dell'Arrière Pays, proprio in francese, la lingua più parlata nel suo ristorante in Apricale : Delio Viale.

Anche Alain Ducasse ama l'Arrière Pays, e non poteva mancare una sua dedica per Delio.

I gatti di Apricale, i veri protagonisti dell'entroterra



Ristorante Delio

Delio Viale

Piazza Vittorio Veneto, 9
18035 Apricale (IM)
0184 208 008





- gdf -

mercoledì 28 settembre 2011

Oggi cucino io | Le Canon d’agneau come a L’Oustau de Baumanière

- gdf 2011-

Il grande Raymond Thulier ed in seguito il nipote Jean André Charial misero a punto questa semplice quanto efficace ricetta per poter gustare al meglio un carrè d’agnello, una sella d’agnello, rispettando e conservando ogni profumo tipico della Provenza classica. Il vecchio Raymond, l’uomo che visse due volte ; assicuratore di successo fino a metà della sua lunga vita e per la seconda metà chef proprietario di uno dei migliori ristoranti del mondo della sua epoca e tra i primi membri dell’associazione Relais et Chateaux, tuttora due stelle Michelin. Lungimiranza e idee chiare non gli mancarono di certo, il tutto unito ad una sensibilità rara verso ciò che lo circondava. E questo piatto lo dimostra al cento per cento, perché utilizza prodotti e profumi che sono quelli che vorresti sempre sentire approssimandoti alla cucina di una Grande Table provenzale.

La ricetta è quella “codificata” da Charial, che assaggiai la prima volta nel 1989 e mai più dimenticai. Proprio perché l’apparente semplicità faceva risaltare l’elemento principale del piatto nonostante l’utilizzo di ingredienti che potrebbero far pensare ad un abuso di elementi eccessivamente caratterizzanti. Ma non è così se utilizziamo un agnello ricco di sapore come quello dei pascoli di Sisteron invece di un delicato e pallido Pauillac da latte . L’agnello da latte, presso gli chef francesi è spesso inteso come carne bianca, delicatissimo e burroso, molto buono ma non adeguato a questa ricetta, dove, non trovando le piccole produzioni regionali, ci si potrà affidare a carrè d’agnello Pré Salé o New Zeland, che una volta disossati avranno una bella nocetta grande e pulita come un filettino di maiale, quasi completamente priva di infiltrazioni di grasso o di altri fastidiosi tessuti connettivi tipici di altri tagli di carne. Questa caratteristica, unita al tipico profumo di pascolo, rendono questa carne di grana fine tra le più apprezzate in assoluto. Importante la cottura, che deve risultare rosa uniforme, risultato facilmente ottenibile nelle cucine professionali dotate di forni rational o simili, strumenti che non sbagliano una cottura, invece in casa bisognerà prendere gradatamente le misure per non andare oltre il limite, piuttosto meglio rimanere corti, verso una cottura “bleue” piuttosto che “arci cuit” .

E allora andiamo in cucina, con qualche semplificazione casalinga, concedetemela. Se facciamo disossare l’agnello dal macellaio ricordiamo di farci dare anche tutti gli scarti, che utilizzeremo per fare il fondo di cottura, facendoli dorare in padella usando olio d’oliva. Poi aggiungiamo una brunoise di porri, cipolla e carota. In seguito deglassiamo con vino bianco e stacchiamo dal fondo della padella le parti che si sono caramellate sul fondo e sui lati dell’ampio tegame. Aggiungiamo acqua e poco pomodoro, lasciamo ridurre nuovamente e filtriamo : il fondo è pronto. Il "contorno" di questo piatto sarà costituito da pomodori confit e da una composta di cipolle dolci. Per fare i pomodori confit basta pelarli, privarli dei semi e metterli al forno su una placca bassa con i profumi tipici del sud come il timo , l’aglio e poco sale, oltre ad un generoso giro d’olio extravergine. Un oretta a 150-160 gradi dovrebbe bastare. Per la composta di cipolla la ricetta originale prevede la cottura in tegame di cipolle bianche arricchite da due filetti d’acciuga e due cucchiaini di miele. Il tutto a fuoco basso per meno di un ora. Preparata la salsa - ma in realtà si tratta di un fondo non legato - e gli accompagnamenti, possiamo andare all’elemento principale, il carrè d’agnello disossato, che andrà “steccato” con un filettino d’acciuga prima di essere dorato velocemente in padella con poco olio. Lasciamo raffreddare la carne e stendiamo un foglio di pasta sfoglia, appoggiamoci sopra prima i pomodori confit , poi la composta di cipolla ed infine il filettone d’agnello. Chiudiamo il “Canon d’agneau” sigillando la pasta sfoglia con tuorlo d’uovo pennellato su tutta la superficie della sfoglia, magari avendo avuto la voglia di decorarla con qualche disegno realizzato in punta di coltello o utilizzando i ritagli della pasta sfoglia.

Andiamo al forno: 10 minuti a 250 gradi , poi lasciamo riposare un’altra decina di minuti, questo è il trucco per avere una carne rosa uniforme e non marroncina esternamente e cruda al centro. Possiamo finalmente affettare, e se la qualità della carne e la precisione dei tempi di cottura saranno stati ottimali non perderemo neanche un goccio di sangue o di umori. Le immagini annegate nel testo sono due esempi di buon risultato casalingo di cottura. Resta solo da riscaldare velocemente il fondo di cottura aggiungendo all’ultimo minuto un mazzetto di timo che profumi intensamente il piatto riportando la mente ai profumi della Provenza classica. -gdf-

lunedì 26 settembre 2011

L'autunno Au Cros Parantoux

- del Guardiano del Faro-

L'arrivo dell'atmosfera autunnale e dei suoi profumi di umido, di sottobosco, di legno bruciato , di funghi e tartufi, mi porta con la mente ai sentori che si annusano passeggiando lungo le stradine di Vosne Romanée . Prima nel villaggio e poi rapito e attratto come un magnete verso le vigne che delicatamente risalgono la collina; un piccolo tratto che costeggia la Grand Rue ( ahimè! ) , poi girando a destra trovandomi tra i muretti della Romanée Conti e la Romanée St. Vivant . Infine girando attorno a Les Richebourgs e infilandomi dentro Aux Brulées . Appena più in là si scorge Cros Parantoux. Gli appassionati la storia la conoscono bene, non lo voleva nessuno quel pezzetto di terra di circa due ettari, praticamente abbandonato dopo la seconda guerra mondiale e privo anche di uno stradino che consentisse di raggiungerlo per poterlo lavorare. Troppa fatica e troppo tempo buttato su un terroir difficoltoso e con la prospettiva di ottenere vinelli troppo acidi e dai tannini feroci. Ai Camuzet sembrava interessare poco , invece a Henri Jayer interessava molto sfidare quel terreno apparentemente ostile. Il mito ci lavorò a lungo, già a partire dall'immediato dopoguerra, applicando una serie di tecniche innovative per l'epoca, ma solo a partire dal 1978 l'etichetta Au Cros Parantoux entrò a far parte dei vini da leggenda, pur non essendo neppure un grand cru, e spuntando in seguito prezzi ben più alti di tutti i grand cru della Cote de Nuits, salvo la Romanée Conti.

Il tappo del Cros Parantoux 1989 di Henri Jayer, in apertura invece quello di Emmanuel Rouget 1998.

Ma la storia, come dicevo più su, la si conosce abbastanza bene, mentre l'attualità è quella che ci conferma che le etichette oggi disponibili per i comuni mortali sono quelle del Domaine storico, Meo Camuzet, legato a doppio filo per decenni a Jayer, e a suo nipote Emmanuel Rouget, che ne detiene la maggior parte della parcella. Volendo quindi permettersi di bere qualche decilitro di uno dei vini più mitici del pianeta senza far sanguinare il conto in banca è consigliabile affidarsi con fiducia alle produzioni confidenziali di Meo Camuzet e Rouget .

Il vino ispiratore della giornata autunnale non è quello che vediamo qui sopra ma è invece quello di Emmanuel Rouget, un 1998, che finalmente si comincia a distendere dopo un lungo sonno. E' una caratteristica risaputa quella dei vini di questo piccolo cru - poi promosso a premier cru-, l'attesa è fondamentale perché tutto quanto si fonda in maniera armonica, perché l'acidità è quasi sempre molto elevata, l'estrazione piuttosto sobria e la mineralità in piena evidenza .

Il colore comincia a cambiare, le sfumature granata si individuano nel rubino chiaro e brillante, eredità della sua gioventù. Il naso parte prima sobriamente su toni di fiori rossi e poi più deciso su note evidenti di lampone, frutto rosso e acido come pochi altri, e dunque anche qui il sentore è quello del frutto rosso che da più l'idea di acidità, anche al naso, appunto il lampone, un po' come nei rossi di Coche Dury, dove anche la visione del melograno integra un bouquet dallo spettro molto ristretto. Come cerca inutilmente di spiegare Pacalet ai suoi clienti americani, la nobiltà di un cru si identifica nella precisione del suo bouquet e non nella potenza e nella concentrazione, per lo meno in Borgogna. Poi arriva la mineralità, le sensazioni tartufate con il finale di ritorno ancora insistito sul solito irrefrenabile lampone. Vista la stagione lo vedrei bene con una pernice tartufata, meglio sarebbe una Grouse, ma a trovarla... bisognerà organizzarsi attorno a questi temi per l'autunno, cru di Vosne e selvaggina, ma non troppo forte di sapore, e si, una Grouse con questi vini mi manca proprio.





E infine la mappa, che ci fa capire meglio quale sia la collocazione del cru, apparentemente sfavorevole, ma che il savoir faire del vecchio Jayer ha reso indimenticabile. E ancora un link dal sito di Meo Camuzet, con la visione dal satellite e la fiche tecnica del vino.










http://www.meo-camuzet.com/pages/fiches.php?lang=fr&vin=parantoux



- gdf -

domenica 25 settembre 2011

L'estate sta finendo

Anzi, stamattina sul faro tira un'arietta che promette poco di buono, questo è già un clima autunnale e questo è il primo piatto che gira il foglio del calendario. Il primo piatto incontrato in questi ultimi giorni che comincia a farmi capire che le sofferenze patite a causa del caldo estivo sono finalmente finite e le prime gocce di pioggia fine stanno cominciando a scendere :




filetto di baccalà in due cotture, porcini, finferli, tartufo nero, salsa densa di zucca e salsa leggera di aglio e prezzemolo.


- gdf -


venerdì 23 settembre 2011

Valutazioni azzardate

- del Guardiano del Faro -

Vagando senza meta nella campagna lombarda condivisa dalle province di Como, Varese e il Canton Ticino capiterà spesso di entrare e uscire dai confini attraverso un numero indefinito di così detti valici di frontiera, da queste parti più frequenti dei tabaccai . Frontiere spesso lasciate ormai a se stesse, dove un fosso e una ringhiera sono il massimo della protezione, ricordo romantico dei bei tempi del contrabbando creativo, quando i più poetici artisti del transito di valori riempivano di monete da 500 lire in argento il tubo del telaio della Graziella pieghevole e arrancavano lungo le stradine prossime alle dogane con malcelata fatica. Sorriso di circostanza, gomme fiaccate dal peso del “carico” e rischio di non riuscire più a fermarsi in fondo alla più tenera delle discese con i freni vanamente tirati per evitare di investire i doganieri.

Leggo Vecchia Osteria, non conosco questo posto ma mi fermo ugualmente con l’intento di consumare un frugale pasto, magari all’aperto, magari sotto un bosco di faggi e castagni. Tutto a posto, il vecchio cascinale magnificamente restaurato è ospitale e caldo nei suoi interni, lo si vede già attraverso le finestrelle che danno sulla strada e sul parcheggio privato. Si intuisce anche la presenza di un fresco dehors alberato. Quello che non si può intuire è la presenza della targa rossa della Gault Millau svizzera che senza mezze misure mi garantisce che qui si mangerà da 16/20mi .

Sapete com’è, un conto è trovare la targa di una catena, di una associazione o il simbolo di una guida; o per meglio dire: il giglio della Relais, il simbolo delle Soste piuttosto del macaron Michelin. Un altro conto è ritrovarsi di fronte al numeretto fissato alla parete che non ti da scampo, il numeretto dice che qui si mangia da 16 , e quindi se non hai capito che qui si mangia da sedici ti senti un po’ scemo, o tu o quelli che gliel’hanno attaccato. E allora andiamo a vedere qualche piatto da sedici.

La sala con il camino, lo chef ama molto le affumicature...

L'onesto e ben riuscito Merlot bianco di Guido Brivio, Mendrisio.
Lo chef Ambrogio Stefanetti prende la comanda .

Crema di zucca all'olio di zucca

Foie gras e petto d'anatra fumé

Salmone irlandese selvaggio marinato all'aneto e affumicato al legno di faggio.

Risotto con fegatini, porcini e zafferano.

Ravioli di formaggi di queste valli al burro e salvia.

La sala che da sul vasto giardino

Affogato di crema al caffè e nocino della casa.

Come una zuppa inglese di frutti rossi.

In giardino...
E allora? Avrò mangiato da 16 piuttosto che da 14, 17, 15,5 o 16,8 ? Bho! Posso solo dire che ho mangiato bene, che tutti i piatti erano meglio di come è lecito attendersi da preparazioni molto classiche, voir tradizionali, che il servizio è ottimo, lo chef simpatico e disponibile, l'ambiente rilassante e riservato. In sostanza, quel che conta è che in questo posto tornerei volentieri, per l'insieme dei vari aspetti ma soprattutto per poter assaggiare altri grandi classici della cucina , regionale o internazionale che siano, fregandome della targhetta rossa attaccata al muro di questa Vecchia Osteria che non è vecchia e neppure Osteria. -gdf-