- del Guardiano del Faro -
Ci siamo, settimana prossima scade il terzo anniversario di un evento che cambiò il mio modo di analizzare criticamente la cucina contemporanea, ma in questo momento non è di cucina che voglio parlare, ma del senso delle provocazioni, quelle che amo fare, quelle che mi vengono spontanee, quelle che mi hanno fatto rischiare più volte due schiaffi. Quelle che però non gradisco molto se provocate da altri. A distanza di tre anni mi va di raccontare il lato B di una serata indimenticabile, per forza indimenticabile. Attenzione però, questo post supera le 7000 battute scritte, a cui vanno aggiunte le consuete sottintese.
Lo sanno in quattro quello
che realmente accadde quella sera
disgraziata in Cala Montjoi. Lo sanno con certezza solo in quattro, gli altri
per sentito dire. Quei quattro sono due ottimi chef stellati e un mio ex associato del blog Passione Gourmet, quei tre con i quali stavo a quel tavolo da
quattro prenotato da almeno sei mesi. Il quarto è il proprietario, Juli Soler,
che in parte condivise i momenti cruciali di quella pazza notte, confortandomi
con qualche sguardo sfuggente mentre facevo avanti e indietro dal bagno, che
come molti sanno, è esterno al ristorante, e quindi per raggiungerlo dovevi per
forza attraversare tutta la sala attirando l’attenzione della cinquantina di
clienti.
Juli Soler: ho letto da qualche parte che non sta bene, perché è
affetto da una malattia neurologica. Mi dispiace molto per lui, in bocca al
lupo. Proprio una malattia neurologica. Pensare che da quelle parti proprio un
neurologo, Miguel Sanchez Romera, intraprese una quindicina di anni fa un cammino
abbastanza simile a quello di Ferran Adrià, ma con risultati e successi molto
diversi a L'Esguard.
Non dovevo neppure esserci a quel
tavolo, ma chi doveva stare seduto a quel tavolo al mio posto ebbe un piccolo
problema, piccolo ma abbastanza importante da dovervi rinunciare, dandomi quella
possibilità che non desideravo, ma che sentivo di dover cogliere. Oggi mi rimane ancora un dubbio però: veramente non ci poteva andare o intendeva innescare consapevolmente la bomba? Avrei
dovuto andarci quindici anni prima a El Bulli, quando, come si usa dire a Biella: quando
si poteva mangiare.
Ma decisi di andarci lo stesso, e
di raccontare sinteticamente cosa accadde, ma solo relativamente al cibo, al
vino, all’ambiente, al servizio. Per scrivere quella che in gergo si chiama recensione
fotografica e didascalica di un ristorante. Quella recensione fu pubblicata in
due parti. La prima non destò troppo scalpore, forse perché rimasi molto tra le
righe, in maniera prudente. Quando mi resi conto che il mio messaggio non era
passato alzai il tiro, e quel blog che fino al giorno prima era un luogo
virtuale piuttosto tranquillo diventò una bolgia infernale. I contatti
quadruplicarono in dodici ore e i commenti non furono teneri verso chi osò
scrivere, tra le altre cose taglienti, che se quel modo di intendere il cibo
fosse diventato una realtà nel prossimo futuro, il mondo avrebbe potuto fare a
meno di dentiere ma avrebbe avuto necessità di molta carta igienica. Non posso neppure immaginare oggi quanti ci siano passati sopra per leggere o per commentare. I commenti, ma quanti furono?
Le altre cose non le scrissi
perché non pertinenti alla materia, alla rigidità espressiva che ci eravamo
imposti, quella rigidità insopportabile già a medio termine, figuriamoci a
lungo, come rimanere fermi a letto sempre nella stessa posizione per un intera
notte, anche se ti svegli più volte e ti chiedi: perché non voltarsi dall’altra
parte per vedere se è meglio o peggio? Non scrissi nulla anche perché poteva
essere condizionante nel pensiero di chi leggeva. Come dire, ecco, gli sono
successe queste cose e quindi ha sparato a zero. Invece no, nessun alibi,
quella sera si mangiò in quel modo, ma accaddero anche altre cose.
Ora, a distanza di tre anni, con
quel ristorante ormai chiuso da tempo, posso ritornarci sopra serenamente e
riderci anche sopra, perché visto dal di fuori, come da una telecamera che
riprende le scene dall’alto, adesso mi farebbe solo ridere rivedermi a correre
in giro per la sala per i diversi motivi, che iniziarono con una botta di
colite causata dalla prima sequenza di snack gelidi e alcolici.
Ma fino a quel punto, niente di
grave, anzi, così feci spazio per le sequenze successive, perché ricorderò per
sempre che le portate furono 42. La seconda situazione di crisi fu dovuta ad un
piatto che intendeva essere una declinazione intorno al pistacchio, nelle sue
diverse forme e consistenze. Una di
queste consistenze era decisamente durissima, e non so neppure quanto voluta,
né mi sono messo a verificare se quel pistacchio che mi spaccò in due un molare
aveva ancora il suo guscio. Forse si, non so quanto volutamente ma forse quel
pistacchio andava sgusciato a mano invece di finire in bocca con gli altri più
o meno morbidi, teneri, o liquidi. La disattenzione si paga.
Appoggiai il pezzo di molare sul
tavolo; ma poco prima avevamo già subito un colpo alle gengive inferto da una
specie di tavoletta di tè verde apparentemente innocua se non che amarissima e
ghiacciata a -18°, che contribuì non poco ad accentuare il dolore nella zona
dentale poi accidentata, e quindi provocando un dolore sul dolore, e aprendo la
strada ad una nevralgia al trigemino che mi convinse a tornare in bagno per
sciacquarmi la bocca dai residui del dente sbriciolato e nel contempo prendermi un
antidolorifico per calmare il dolore nevralgico.
Ma al mio ritorno un’altra insidia
si stava rivelando nella seconda e devastante parte del menù, dove per un paio di
volte il mio cervello accese tutti gli allarmi rossi e mi convinse a risputare nel piatto delle cose insopportabili, e che comunque mi
girarono lo stomaco, costringendomi a tornare di nuovo in bagno per problemi di
stomaco stavolta. E fu così che, ad acqua pulita per fortuna, il mio HTC
scivolò fuori dal taschino della giacca e volò dritto in fondo al cesso. Pluff! Dritto dritto, senza neanche sbattere sui lati della tazza. Ad
acqua pulita dicevo, e quindi fui lesto a recuperarlo, a correre di nuovo in
mezzo alla sala verso il nostro tavolo, smontare in più pezzi il telefonino e
tentare di tamponare l’emorragia usando tovaglioli e tovaglia, per altro già
massacrata di mille macchie per via dei diversi snack dalla consistenza
inconsistente, e spesso da mangiare con le mani, e che spesso cadevano dalle
nostre mani su quella disgraziata tovaglia, ormai degna di Pollock.
Il telefonino non si riprese mai
più, io invece per qualche istante si, almeno fino a quando non arrivò il colpo
di grazia, la famosa lepre. Quella che non si può definire ancora oggi con il
termine esatto in pubblico. Di quanto fosse avanti di frollatura quella lepre ne
abbiamo di nuovo parlato recentemente io e uno dei due chef che condivisero quel tavolo,
e la sua espressione schifata non è ancora cambiata da quella sera.
Altro giro in bagno quindi, e
finalmente la fine del menù e del supplizio. Non ci dovevo andare, quella non
cucina lo sapevo che non faceva per me, ma una parte delle mie personalità non
voleva rimanere ignorante, mentre l’intuito sapeva già, ma non fino a che punto
la cucina di Adrià potesse essere double
face, come le mie diverse personalità. Per metà divertente, stuzzicante, buona.
E per metà provocatoria fino ad andare a cercare il limite della
sopportabilità. Andando a scavare profondo nei palati dei clienti, per capire
fino a che punto fosse lecito osare. Mi ero cercato e trovato un altro alter
ego, quello che può essere simpatico, divertente, brillante, e che poi può
virare sulla più acute delle provocazioni, per vedere l’effetto che fa, fino a
rischiare di essere preso a schiaffi; cosa che quella volta subii io.
Tornai a casa un paio di giorni
dopo, avvisando amici e parenti dal telefono fisso di un hotel vicino alle magiche notti del Sarrià, dicendo loro
che non potevo essere rintracciabile sul telefonino per motivi di forza
maggiore, e che lo strano modo in cui mi esprimevo al telefono fisso non era
dovuto ad una patata lessa e messa sotto la lingua ma dal gonfiore della colpevole gengiva
infortunata.
Tornai a casa in macchina, da
Barcellona al Faro sono 700 i chilometri. Sarebbero sei ore, più o meno. Se non ti si guasta un vetro elettrico, quello anteriore lato guida, quello
non fondamentale se entri in autostrada a Courmayeur e sei diretto a Napoli, perché
a ben pensare tutte o quasi tutte le barriere e i caselli intermedi sono stati
soppressi. Ma in Spagna no, così come in tutto il sud della Francia. Le
barriere saranno una dozzina? E a metà novembre ci potrebbe essere parecchio
freddo e vento. Ma potrebbe andar peggio. Come? Potrebbe anche piovere.
Per il resto, tutto bene.
una conferma di quello che facesti intuire già allora...
RispondiEliminacaspita che racconto! battuta dopo battuta si delinea la descrizione di una serata che definir surreale è poco, puoi definirti fortunato a raccontarla ancora...
RispondiEliminaho molte perplessità sulla sperimentazione a tutti i costi ma ho trovato elegante la tua scelta di far decantare ricordi e giudizi, trovo che abbiano ancor più peso.
Ci potresti scrivere la sceneggiatura di un film, attore principale Javier Barden nella parte del gdf. Ma quel pistacchio al centro della foto sembra proprio abbia ancora il guscio...
RispondiEliminaB.
B-Sembra anche a me, ma nella concitazione del momento non verificai. Agli altri che avevano lo stesso piatto non accadde nulla...
RispondiEliminaLa Femme- La scelta di raccontarlo solo oggi sarà anche elegante ma non cambia la sostanza, mi auguro solo che quel folle decennio andrà declinando naturalmente. Fin che ci sarà insalata perché mangiare alghe e soja?
Per chi vuole rivedere i dettagli, il link è ancora funzionante dai PG, e i soli commenti della seconda parte sono arrivati a 111. Quelli della prima parte non li ho contati, ma credo molto meno.
Il primo commento fu proprio tuo breg.
Pure la sceneggiatura di un film?
Il lato A era notevole, ma io sono per il Lato B, ancor meglio.
RispondiEliminaA&P
Buonasera,
RispondiEliminaquesto post fa riflettere, ricordando l'edizione PG... mancava solo il Gin Tonic per endovena...
Massimo
U gianchettu milanao