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Vale la pena richiamare l'origine ed il significato della parola gastronomia, che ci viene dall'unione di due parole greche ” gastròs “ che si traduce alla lettera, dello stomaco, e “ nomìa” che come secondo elemento in molte parole, ne completa il significato come ad esempio agronomia, autonomia, economia, che deriva dalla coniugazione del verbo “ nemo “ , regolare, amministrare. Nel nostro caso il senso si traduce nel complesso delle regole e delle usanze relative alla preparazione dei cibi o arte della cucina, e come concetto accessorio, assortimento di specialità culinarie. Volendo essere ortodossi la gastronomia nasce con l'esigenza dell'uomo di cibarsi per sopravvivere. L'evoluzione nei secoli è stata lenta ma inesorabile, ed ha avuto una svolta con la scoperta dell'uso del fuoco per cucinare tutto ciò che antecedentemente si consumava crudo. Col tempo l'uomo ha sviluppato un complesso di conoscenze e di tecniche sulle tematiche del cibo, che vista la storia nell'arco dei millenni, pur avendo raggiunto apici impensabili ancora qualche decennio addietro, non credo abbia esaurito sia la spinta dottrinale che il relativo complesso tecnologico a corredo. Se guardiamo l'insieme delle tecnologie a disposizione attualmente ed impensabili alla metà del secolo scorso, se ancora riflettiamo sui fermenti attuali dell'universo eno – gastronomico, non possiamo esimerci dal pensare che la gastronomia ha ancora margini di evoluzione. Basti pensare al sistema produttivo ed al consumo di cibo e vino al tempo dei romani. In poco più di duemila anni l'evoluzione delle tecniche è stata rivoluzionaria, ed ovviamente anche il gusto ha adeguato le sue funzioni mentali e corporali nel consumo della conseguente gastronomia.
Bisogna anche tenere conto che sovente il genere umano ama rifare il verso al suo passato per ritrovare antichi sapori da reinterpretare e mixare col bagaglio delle conoscenze acquisite. E' attuale l'abbattimento delle barriere tra il dolce ed il salato, mentre circa cinque secoli fa ne veniva codificata la separazione assoluta. La cucina attuale non è solo un complesso di conoscenze che portano alla trasformazione chimico-fisica del cibo, ma è un nuovo linguaggio che come la poesia, la pittura, la scultura, ed ogni altra espressione artistica, esprime una sua filosofia sui concetti di armonia, creatività, buongusto, bellezza, etcc..., in altre parole cultura dell'edonismo, che si riallaccia ai concetti filosofici dei primi pensatori greci della corrente epicurea, massima teoria del soddisfacimento dei bisogni e del piacere dell'uomo.
Innovazione della tradizione è un concetto che incrocia il cammino della gastronomia moderna dagli anni 70/80 per merito della scuola francese, che dopo essersi scossa da un torpore ottocentesco, ha sentito l'esigenza di un alleggerimento concettuale e sostanziale. Nasce di conseguenza la “nouvelle cuisine” che marcherà in maniera significativa quasi un ventennio di storia culinaria, e che trova in Paul Boucuse il suo mentore per eccellenza. Caposcuola in Italia è Gualtiero Marchesi, che” fattosi le ossa” a Lione dai fratelli Troisgros, ha importato in Italia i nuovi teoremi culinari, creando tuttavia nuovi discepoli che abbracciavano tout-court la nuova filosofia, bypassando i concetti basilari della cucina tradizionale. Si sono avuti in tal modo cuochi imbevuti della nuova novella ma incapaci di cuocere piatti tradizionali come l'arrosto ed il brasato. Tuttavia anche in Italia la nouvelle couisine ha prodotto un mutamento di stile sia nella cottura che nella presentazione dei piatti, con punte parossistiche che hanno portato a giudizi molto ironici sulla quantità microscopìca delle portate, inversamente proporzionata alla grandezza dei piatti nei quali venivano servite. Come ogni corrente di pensiero la nuova cucina ha avuto i suoi mistificatori, che ignari dei veri principi sulle cotture leggere e veloci tipiche del nuovo stile culinario, si sono dedicati più agli aspetti coreografici che alla sostanza intrinseca delle preparazioni. Ovviamente malgrado queste storture crescevano anche cuochi di indubbia bravura che traevano ispirazione e metodo per mettere a punto un proprio percorso professionale di alto livello, che avrebbero generato a loro volta una folta schiera di seguaci virtuosi. Crescevano nel contempo due settori intimamente collegati fra loro, una nuova generazione di critici enogastronomici, ed una editoria ad essi collegata, originaria di un'abnorme proliferazione di guide di ristoranti con voti e giudizi molto personali e sovente in netta contraddizione fra loro, a dimostrazione che il gusto è essenzialmente un fattore culturale oltre che di papille gustative.
Mentre scemava l'appeal della nouvelle couisine e tutti predicavano o invocavano il ritorno alla tradizione, ecco avanzarsi negli anni novanta la figura di Ferran Adrià, cuoco spagnolo portatore di nuove teorie rivoluzionarie sulla cucina nel solco della “molecolare”, e famoso almeno inizialmente non tanto per la sua “destrutturazione”, quanto per l'uso del sifone e delle spume da esso prodotto. Non era facile resistere al nuovo credo, sposato di buon grado dalla ristorazione internazionale, e riassunto più tardi nel 2006 nel “Manifesto de El Bullì”, sintesi della filosofia culinaria di Adrià. L'arte o più prolissamente il mestiere di cucinare diventa un linguaggio col quale esprimere armonia creatività e cultura. Per Adrià è anche magia, bellezza, provocazione, poesia. Il suo credo culinario è molto complesso e difficile da riprodurre con fedeltà, ciononostante ha trovato molti proseliti nel bene e talvolta nel male, a riprova che cucinare secondo le proprie possibilità culturali e professionali, vale più delle pallide imitazioni. Ce ne fosse stato bisogno, Adrià è un convinto assertore dell'abbattimento della barriera fra dolce e salato, concetto sposato da molti proseliti fino al parossismo, tale da includere in alcune preparazioni anche il piccante e l'acido in opposizione fra loro e nella convinzione di raggiungere il perfetto equilibrio dei sapori. Se non si ha nel proprio bagaglio culturale la perfetta padronanza e conoscenza delle materie prime, non sempre questa alchimia viene raggiunta per dare piacevolezza alle papille gustative.
In realtà il vero teorico della cucina molecolare, come metodo scientifico rapportato all'arte culinaria, è stato il chimico francese Hervé This, che ha pubblicato numerosi libri sull'argomento. Il primo raduno sulla gastronomia molecolare si tenne in Sicilia ad Erice nel 1992, nel quale fu protagonista il premio Nobel per la fisica Pierre Gilles de Gennes, con lo scopo di coinvolgere cuochi e pasticceri nei fenomeni chimici e fisici che avvengono negli alimenti, dalla cottura al raffreddamento. Tale sistema non da origine a ricette codificate, ma a conoscenze scientifiche sulla trasformazione degli alimenti a caldo e a freddo. Hervé This, qualche volta definito erroneamente chef, in realtà è un cultore della buona cucina riveduta e corretta in alcuni passaggi chiave alla luce delle sue conoscenze chimiche e fisiche.
E poi vennero i vari Masterchef, a parere personale, protagonisti della spettacolarizzazione più accesa della cucina televisiva foriera di illusioni, di mirabolanti promozioni a chef dopo qualche mesetto di contesa “inter pares”, con candidati veloci a praticare presunzione e supponenza, a dimostrazione che in Italia la virtù più diffusa è l'illusione. Le eliminatorie per formare il numero dei concorrenti dimostrano già le scarse capacità dei più, incapaci addirittura dei tagli basilari delle verdure, tipo patata o cipolla. Il credo maggiormente praticato è l'uso sproporzionato di elementi concorrenti ad una ricetta, nella quale sovente una miriade di spezie con corredo di lime, agrumi in genere e lo zenzero onnipresente, sembra essere la panacea assoluta della bontà culinaria. La fantasia, malgrado le scarse cognizioni di base degli aspiranti, è l'esortazione più abusata dei giudici che, credo, hanno la sicumera di trasformare i concorrenti da patate in pregiati tartufi, tanto per usare una simbologia pertinente. Trovo appropriata come chiusa a questo ultimo fenomeno pseudo culturale un noto sapiente proverbio napoletano: “Ha da passa' 'a nuttata” .
(da Eco di Biella)
By Angiulli Angelo Antonio
Ci ho dormito sopra.
RispondiEliminaLa notte era piena di stelle che tra una rosa di dodici dovevano eleggere la top ten della critica gastronomica, ho sollevato con curiosità i due petali eliminati e letto i nomi.
Forse una nottata non è bastata, non capisco in che direzione stia andando la gastronomia e se la critica critica o si adegua.
Nel tuo titolo arrivi "fino ad oggi", poi come tutti ti metti ad osservare ed aspetti, qualche cosa di incomprensibile sparirà, qualcos'altro persisterà, disturbando te, il piatto e i palati, ma una cosa è certa, uno di questi giorni mangerò una bella porzione di orecchiette con le cime di rapa, consapevole che questo piatto sopravviverà a diverse nottate.
AVEALLANGIULLI
Secondo la ricetta del divino Gualtiero ci potrai aggiungere anche una scaloppa di foie gras ri-nobilitando la ricetta tradizionale. Per il resto è come andare in guerra ideologica consapevoli di essere dalla parte giusta, in linea con le proprie convinzioni dettate da cultura ed esperienza. Un saluto in attesa che passi " a nuttata " AAA
EliminaDecisamente esaustivo, grazie
RispondiEliminaFranck
Tripla AAA non blogga ma scrive in Italiano corretto, senza necessità di correzioni
RispondiEliminaGrazie al Guardiano del Faro, ed a Franck.
EliminaIl suo è un trattato storico-culturale-culinario straordinario che mi ha riportato alla mente lo stile di Fernand Braudel in "Civiltà materiale economia e capitalismo XV-X III secolo". I miei complimenti
RispondiEliminaXVIII secolo
RispondiEliminaGrazie al Duca per i suoi complimenti. Come da cuoco anche alla passione dello scrivere non lesino il mio impegno. La sua citazione di Fernand Braudel mi ha fatto scoprire le comuni radici contadine, delle quali sono sempre stato fiero e che devo a mio padre come alternativa alla mia scarsa voglia dello studio.
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