- di Silvia Vecchione -
Musica, maestro! Voglio il frastuono delle onde che si
infrange sugli scogli, il sibilo del vento che trapassa le conchiglie ed erode la
sabbia; voglio tutti i cavalli del mare in lotta per domare il canto delle
sirene. Scilla e Cariddi sullo sfondo, d’impeto s’alza il sipario: oggi, a
teatro, la nostra Odissea è quasi un one-man
show. Una storia di coraggio, intraprendenza e determinazione. Il racconto,
eterno, di un viaggio. Itaca è Procida. L’Ulisse, colui che abbandonò le sacre sponde per spingersi a Nord, nella
capitale dove il mare quasi tocca il cielo e non cantano sirene, ma sospira,
languida, la sirenetta. Dal Golfo di Napoli a Copenaghen, poi a Milano, italiano
crocevia d’avanguardie, Marco Ambrosino porta la mediterraneità all’estrema
sintesi, concentrandone scientificamente l’essenza purissima, in una cucina che
è distillato di verità, vitalità, ardore e passione.Accomodatevi, lo spettacolo
sta per iniziare. Solo 28 posti.
Si alzi, dunque, il sipario: l’acqua c’è, il canale
anche; l’aria, sì, talvolta è grigia, ma siamo un po’ più a Sud e la cucina di
Redzepi resta lontana – almeno fisicamente – di un buon migliaio di chilometri.
Siamo, invece, a pochi passi dalla Darsena milanese: un luogo di confine, dove
l’atmosfera neo-grunge abbraccia la
sperimentazione; e i confini non fanno paura a chi è nato su un’isola. Mancanza
di casa? Forse Penelope non è pronta a questa cucina mediterranea contemporanea.
Lo faccio per lei. Invece, la Milano d’oggi è aperta a tutto, alla sola
condizione che non sia già stato visto: raccontami una storia, la stessa storia
se vuoi, ma come non l’ho mai sentita prima. Stupiscimi: il nuovo lusso è
esperienza intellettuale; esclusiva, perché riservata ai pochi che, come me, che
non hanno paura di rischiare.
Paura di rischiare? Il primo atto la spazza via: Penelope
ha gli occhi neri e le labbra rosse; pelle bianca, morbida, al tatto sprigiona
una fresca essenza di agrumi, che poi, ardente, racconta delle calde giornate trascorse
al sole, quando la pietra si faceva rovente, la sabbia si frantumava sotto i
piedi, ma era dolce, questo rabbioso spettacolo di natura veemente,
travolgente, sensuale. È il pomodoro San Marzano alla brace con limone,
mandorle e tartufo nero. I due simboli di acidità mediterranea uniti
coraggiosamente in un accostamento paradossale che diventa sinonimo d’audacia e,
come tale, ci conquista.
All’alba, prima di partire per il lungo viaggio,
camminava in riva al mare. Trenta metri più in là sulla costa, stava per
lasciare casa e salpare all’avventura.Tanti pensieri ad affollare la testa del
giovane navigante, spirito libero da viaggiatore, curiosità indomita, paura
poca. “Chiajozza” è la quintessenza
di un ricordo: racchiude e sprigiona tutta la sapidità del mare, intensissima,
perché il tempo amplifica le sensazioni. Il crudo di canocchie e il gelato ai
ricci di mare inondano il palato di pungente freschezza: arrivano forti, sono
le note di testa; l’olio al pino marittimo è la nota di cuore e, nel cuore, la
nostalgia; l’insalata di cavolo cappuccio e la sabbia al nero di seppia – le
note di fondo – restituiscono solidità a un piatto che è prima di tutto memoria.
Sulla stessa lunghezza d’onda, l’ostrica alla brace, accompagnata
da maionese d’ostrica, tapioca all’aceto di riso affumicato e granita al
salmoriglio, è un piatto altrettanto riuscito. Un esercizio tecnico, un gioco
da chimici trapezisti, maestri di equilibrio, che, per assurdo, ha “solo”
l’ambizione di dimostrare realtà, purezza e veracità marina, schietta
autenticità. Contrasto di consistenze e temperature che divide il piatto in battute,
con sapori che travolgono il palato in una sequenza temporale in continua
evoluzione. Un dinamismo percettivo da assaporare senza troppa fretta. Milano,
ma che il cuore resti a Procida.
Un avvincente gioco di sperimentazione, questo
spettacolo, dove l’unico vero rischio è l’autoreferenzialità: “delle cose che a
me piacciono”. Il piatto che sconvolge, scardina e
rapisce – se, come in questo caso, è ben raccontato e servito sempre alla
giusta temperatura – si fa riconoscere e lascia il segno; ma sono a nostro
parere scomode le eccessive punte di acido amaro toccate in portate quali la
pancia di maiale con enogarum, menta e cavolfiore e nell’agnello con San
Marzano e cavolo di mare.
D’altro canto, l’equilibrio precario è foriero di
innovazione. Non è certo una milanese a opporvisi. The show must go on, quindi; un viaggio per mare che non teme
tempesta, il coraggio di un Ulisse contemporaneo che fa cucina di confine,
perché è su un’isola che nasce ed è lì che lascia il cuore.
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S.V.
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