Capita abbastanza spesso di ricevere campioni di vinelli al faro; capita raramente che arrivi roba buona come questa, che ti sorprende già dalla sobria, chiara e convinta etichettatura. Non ho neanche aspettato di stappare la seconda bottiglia - quella in primo piano sfocato - perché questa Vigna di Capestrano mi ha già sufficientemente emozionato, così come quando mi è successo di conoscere il produttore, che però si guardò bene dal parlarmi del suo vino. Mi ha ascoltato, mi ha letto, mi ha guardato e poi mi ha mandato il suo vino senza altro aggiungere. E aveva ragione, perché è il vino che deve parlare. Leonardo Pizzolo io l'ho visto due volte in questa vita, ma forse sarà il caso che approfondisca, perché sarebbe un vero peccato lasciare le cose a metà. Le note, alla mia maniera - ma sempre più asciutte col passar degli anni - non mi vergogno di metterle in chiaro, senza rete, scritte al volo in tre minuti sul bordo della tovaglia, poco fa. In 45 minuti la bottiglia è finita, da solo.
Qui sotto invece qualche nota presa dal sito del produttore:
Dopo la raccolta manuale, le uve vengono sottoposte ad una pigiadiraspatura molto soffice. Il mosto rimane a contatto con le bucce per qualche giorno per favorire la partenza della fermentazione spontanea da parte dei lieviti naturalmente presenti. Per tutta la fase macerativa e quella fermentativa, la temperatura viene monitorata ma non indotta per facilitare la naturale espressione dei lieviti indigeni. Dopo la fase fermentativa, il vino rimane in acciaio ad affinare sui lieviti, per un anno. Il vino presenta un colore paglierino molto carico, con una evidente velatura che ne denota la non filtrazione. Al naso la mineralità, unita a sentori di frutta tropicale e agrumi è dominante. All’assaggio, la spiccata acidità esalta le note minerali, rendendolo piacevolmente bevibile. La finezza e l’eleganza completano la particolarità e l’unicità delle sue espressioni aromatiche. All’ottima bevibilità si aggiunge la conservabilità nel tempo, durante la quale si avrà un miglioramento di tutte le sue espressioni gustative.
Si è guastato il citofono del
faro. A forza di dirlo è accaduto. Vedi la potenza della mente? L’unico negli
ultimi 50 anni nel raggio di centinaia di chilometri. Da due mesi che non funziona
più. E io ne ero felice non dovendo neanche più rispondere al citofono. La posta
fuori dalla porta. Gli inattesi e indesiderati fuori causa e fuori casa. I testimoni de Geova e i venditori di vino con lo stallatico addosso definitivamente fuori gioco. Unica
possibilità di comunicazione gli sms, le mail o i lampi di luce dal largo.
Ma la tecnologia avanza -con
buona calma ma è arrivata anche al faro –
e il proprietario del faro ha deciso: modernizziamo l’impianto e
montiamo il videocitofono. Non potrò più far finta di niente guardando da sopra
e decidendo se aprire o no: a te si e a te no. A chi vorrà introdursi per i più
perfidi motivi basterà modificare la voce e mettermi davanti alla video camera
la foto di un volto amico e il gioco è fatto, quasi come un cavallo di Troja.
Oltre ad aumentarmi l’affitto mi
ha imposto anche l’uso di questo attrezzo il proprietario. Dopo questa seconda
provocazione potrei anche andarmene. Gianchetto suggerisce: quando arriva una
nave spegni la lampadina e dopo che tre incrociatori saranno finiti sugli
scogli vedrai che ti richiamano a spolverare le lampadine, ti spengono il
videocitofono e riportano le condizioni economiche allo stato precedente. Ma
non sono così certo che bastino due o tre incrociatori, Giglio docet. Qui si
vuole far soldi alle mie spalle e alle spalle di qualche società di
assicurazione.
Ah! In progetto c’era anche l’installazione
di una serie di ripetitori telefonici delle diverse compagnie. Tutto per far
soldi, tutto per “ottimizzare” lo spazio e la posizione privilegiata, posizione che - ho saputo per vie traverse - interesserebbe anche a Radio Maria.
Probabilmente la prossima mossa
sarà quella di mandarmi un operaio Telecom con la scusa di verificare l’ADSL e
che invece potrebbe installare di nascosto un sistema elettronico automatico sostitutivo
al sistema manuale, quello che uso per i messaggi da lanciare ai naviganti. Le
potenti major discografiche e i grandi gruppi del food and wine avrebbero la
meglio, e sarebbero in grado di pagare del buon denaro per una pessima
comunicazione, sfruttando l’affidabilità del faro.
Mentre dormo questo sistema potrebbe
azionarsi in automatico e scaricare una tempesta mediatica dai toni chiari: comprate questo vino di Zonin per il vostro
pasto quotidiano; ristoratore, metti in carta una verticale di Gaja se vuoi una
stella Michelin; il Cervaro è meglio di un Puligny, boicottiamo i francesi;
andate a mangiare da Mc Donald che la carne è come quella di Martini di Boves; Spizzico è migliorato, usano la mozzarella a
bocconcini di Gioia del Colle e i pomodorini del Piennolo; Ikea non solo per la
scrivania, ma anche per il miglior salmone selvaggio, in omaggio una raccolta
degli Abba; gli Emerson Lake & Palmer hanno riedito il loro miglior
greatest hits in formato multi mediale, non ne puoi fare a meno
Sono preoccupato. Se volete salvare il faro così come lo conoscete mandate un sms con scritto:
Ogni tanto mi diverte aprire alla
cieca quel librone di Alain Ducasse ( J’Aime Monaco ) dove il Nostro si è preso
il tempo di selezionare 170 indirizzi inclusi tra la Riviera di Ponente e la Costa Azzurra. Dentro ci ha
messo un po’ di tutto, alberghi, ristoranti, pescherie, bar a vin, macellai,
produttori di vino, artigiani di vario talento, affinatori di formaggi e anche
qualche gelateria.
E con 32 gradi, l’altro giorno a
Nizza, mi è sembrato il momento buono per andare da Fenocchio, nella parte più
antica della città, tra mille alternative di dubbia ristorazione. Fenocchio
spicca e subito mi inquieta: 96 gusti di gelato? Caro Alain, ma come ti viene
di indicarmi un indirizzo così improbabile? Calma, procediamo con ordine. Provare
prima di commentare.
In realtà i “profumi” dei gelati
sono circa 60, gli altri sono sorbetti. Ma non basta, perché altre specialità
che da noi si chiamerebbero “torte gelato” completano il vasto panorama. Un’occhiata
ai gelati, dove non manca nessun frutto secco all’appello, molti sono floreali
che forse solo i francesi farebbero diventare un gelato: verbena, violetta,
rosa, fiore d’arancio, lavanda e gelsomino… Poi i classici, tutti quelli che
possiamo immaginare ci debbano essere, a base di creme, cioccolato ecc. Qualche
curiosità come il caramello al burro salato, il pan di spezie, il pepe rosa o
lo zenzero. Si, buon pistacchio, buon fior di latte all’amarena, fasulla la verbena.
Versante sorbetti mi sembra più
interessante il discorso, dove tutti i frutti, esotici o anche no, sono all’altezza
dello standard cercato in rapporto ai numeri ( ottimo frutto della passione ), e dove le erbe aromatiche non
sono trascurate ( timo o rosmarino per esempio), e dove anche la birra è
diventata una cosa da leccare. Mi rimarrà il dubbio sul rabarbaro, sul pomodoro e basilico, e quasi quasi pure sul sapore che avrà il cactus.
Ma il caos di questa piazzetta è
delirante, il caldo opprimente, e i prezzi presto dissuasivi ( 50% in più di Grom),
ma resta una seconda chance per capire fino a che punto ci sia del vero
artigianato in questi gelati e dove inizi la piccola industria, perché scopro
che la fabbricazione non si fa sul posto ma bensì in collina, nell’entro terra
provenzale, a La Gaude,
non distante da Cagnes sur Mer e da Vence.
Lassù, leggo che l’azienda è
visitabile, e che la boutique è a disposizione per assaggi in un clima più
fresco a tranquillo, magari in un bel giardino, dove poterne provare almeno una
ventina, come fosse un menù degustazione tematico. Nell’attesa mi tengo Grom, quattro sorbetti, dieci
gelati, le granite siciliane e il gusto speciale del mese: latte e mènta, boja fauss.
Stop alle telefonate! The Party, L'Armadillo meeting in programma domenica primo luglio a partire dalle ore 12.00 ( la conclusione non è dato saperla) ha raggiunto un numero di prenotati che non consente di andare oltre, sia per la qualità che la quantità delle presenze. Notevole anche la presenza femminile stavolta, ci tengono d'occhio, l'armadillo tira, cerchiamo di essere in forma con gli addominali. Ci si vede quindi domenica a San Bartolomeo al Mare, a bordo piscina del Residence Meridiana, sede del ristorante La Femme-La Meridiana di Roberto Rollino. Invito i partecipanti a non lesinare sul numero di bottiglie di vino che vorranno mettere sul tavolo ( ma anche qualche birra particolare sarebbe gradita viste la temperature di questi giorni) e di essere nel limite del possibile puntuali, non tanto per affrontare i temi di cucina, quanto perché mezzora di ritardo di solito vuol dire perdersi almeno una decina di vini che saranno immediatamente stappati e bevuti con la sete dei giusti. Il programma è fitto, perché oltre ai soliti alcolisti interverranno produttori di vino e di altri prodotti di nicchia, che ci faranno conoscere le loro belle realtà. Ci saranno musicisti, ci saranno almeno un paio di chef da urlo che potrebbero anche improvvisare un paio di piatti in free jazz, e poi l'attraversamento della piscina Levinson style, il quizzone con i vini alla cieca, qualche premio, bottiglie, libri e chissà cos'altro per tirare avanti fino al tramonto. E che il Tanqueray sempre sia lodato.
Come si crea un personaggio? Per creare un personaggio
nuovo bisogna partire da zero. Ovviamente si, certo che si! Penserà qualcuno, e se no come diversamente? Ma non è così semplice creare un personaggio quando questo
esiste già, e le sue derive e i suoi profili naturali emergeranno
saltuariamente in mezzo ai flutti dei discorsi, come piccoli scogli in un mare
agitato.
Quindi azzerare carattere e fisionomia non è così semplice,
neanche sul web, dove con un nick name, un avatar e uno stile di scrittura diversa,
argomentazioni diverse e approccio ai dialoghi diversi si può già ottenere un
buon risultato. Un po’ come fanno gli scrittori di romanzi, che non possono
certo interpellare venti persone diverse, o osservare venti persone diverse ore
ed ore per delineare prima i contorni e poi l’interiorità di ogni personaggio. Un
lavoraccio. Più pratico “clonarsi” in casa in venti persone diverse e volendo,
riversarle sul web, come si fa su molti blog o forum per attirare altri
personaggi “veri” da coinvolgere proficuamente nelle discussioni. Quelle che io
chiamo “sfaccettature di personalità”
E fin qui, fin che si resta in digitale ce la possiamo fare
abbastanza agevolmente. La galleria ne è ormai piena, anzi, il gioco
psicologico da portare avanti ora sarebbe il contrario, e cioè cercare di smascherare i doppioni. La
maniera di scrivere, il senso dell’opposizione o di approvazione ai soliti
argomenti sono già un segnale. Da quel punto, basta una piccola o grande
provocazione, magari costruita ad arte da un altro doppione e il doppio gioco
sarà presto svelato.
Ma farlo fisicamente, rinascere, inventarsi di nuovo a metà
della vita è molto più complicato; per tentare di farlo l’asticella bisogna alzarla
tutti i giorni, e anche di parecchio. Per mettere in atto questo gioco
affascinante bisogna - tanto per cominciare - cambiare città, ma non scegliendo
una grande città, dove il nichilismo consentirebbe di rimanere solo anonimi più
che nuovi e misteriosi. Bisogna calarsi in una città di dimensioni medio
piccole, poco turistica e dove il provincialismo è nel tessuto sociale prima
ancora che nella testa dei suoi abitanti.
Ma chi sarà mai quell’uomo in blu? Doccia, accappatoio,
verifica addominali, taglio di capelli corto e regolare, gel morbido, basetta
corta, barba azzerata, camicia con riga rossa, cravatta blu, completo blu,
cintura blu, scarpa blu, calzino blu, orologio con cinturino blu, col quadrante
blu, occhiali trendy, coupé blu.
Ma nevica, quindi meglio a piedi, con cappotto blu.
Portici, chilometri di portici, a est, a ovest, a nord, a sud; e ritorno,
incrociando centinaia di persone da fissare tranquillamente negli occhi senza
timore. Ma chi è quell’uomo in blu che fino al giorno prima non c’era? Boxer a
righe blu dalla commessa curiosa, poi un Martini, due Martini da un barman
curioso. Poche parole, il gusto del mistero, la nascita del personaggio, un
sorriso accennato invece di una risposta; un altro bar, la richiesta di un vino
strano ed un commento forbito, la curiosità di chi inizia ad avvicinarsi,
uomini e donne.
Ma che farà mai quell’uomo in blu? Il locale notturno
vissuto dallo sgabello del bar, senza dar confidenza a nessuno, anzi no, a lei
si, a lei che è nichilista si, perché anche a lei interessa per motivi suoi
avvicinarsi all’uomo in blu. Comincia ad essere trendy farsi vedere con l’uomo
in blu, ma anche quell’altra accorcia le distanze, ma vuole sapere troppo: l’uomo
in blu sorride e se ne va. La prima invece regge il gioco, alza la posta, ma non
fa questioni, si accontenta di rivedere l’uomo in blu senza cercarlo.
Sembra tutto casuale ma
è tutto voluto, e il gioco si fa tosto. L’uomo in blu e una donna ambigua
quanto riservata: si, è la spalla perfetta. Il barman prova ad aprire il dialogo
approfittando del terzo Negroni dell’uomo in blu, e qualche cosa ottiene,
qualche messaggio se lo lascia sfuggire, emerge uno scoglio del personaggio
precedente. Bisogna cambiare bar, cambiare zona, ma anche da quell’altro i
clienti sono sempre gli stessi ormai, i ristoranti li ha girati tutti, i vicini
di casa stanno prendendogli le misure, fino ad arrivare a qualche verità
precedente, anche la spalla femminile scricchiola , comincia a pretendere
qualche cosa in più.
E allora lui fa un ultimo giro in completo blu, si riguarda
tutto il film che si è inventato a velocità tripla, guarda tutti senza salutare
nessuno, ma dentro di se lo sta facendo, sta tirando le somme del suo
fallimento, la rivincita sul
provincialismo, sfida tentata ma persa. Prende atto, va a dormire, il mattino
dopo si alza molto presto e molto sudato, una doccia non basta, la valigia è già pronta, la stazione è a due passi,
e un momento dopo l’uomo in blu non c’è più!
La provincia di Vercelli, è il suo momento: riso e rane. Le buone tavole non mancano: Il Bivio ( Famiglia Sarzano) di Quinto Vercellese, Il Cinzia ( Fratelli Costardi ) a Vercelli, L'Osteria Cascina dei Fiori ( Fratelli Milan) a Borgovercelli. E chiudiamo il poker con questo Balìn, a Livorno Ferraris, locale di trentennale tradizione. Insomma, le provincie limitrofe stanno a guardare mentre le rane e i risotti attraggono da sempre i turisti domenicali lungo i margini delle risaie...
Dolce, salata, calda, morbida, cremosa, noiosa, come quella là. Sempre carente, mancante di qualche cosa. Incompiuta. Ma in grado di sopportare un senso diverso ogni
volta: con una speziatura, con una nota piccante, con una consistenza più tosta, non so, un crostino agliato, con qualche cosa che la renda quello che non
sembra. Ma allora non sarebbe più una vera minestra di zucca: il gusto
dell’incompiuto, il piacere nel lasciare spazio all’immaginazione, da lasciarne svogliatamente un po’ nel piatto; il gusto cinico di arrivare vicino al centro del bersaglio e
mancarlo volutamente. Un quadro senza cornice. Un film senza finale. Un romanzo
senza epilogo. Un menù senza dessert. Un grande vino bevuto nel bicchiere
dell’acqua. Le Church's senza calze.
Il sadico e sapido sapore del
platonico, quando lei avrebbe volentieri concluso fisicamente. Un estenuante petting psicologico. Una minestra di zucca. Sapere di
potercela fare ma non volerlo fare. Il sottile piacere - con il labbro
ammiccante e la coda dell'occhio allertata - di lasciare vincere chi continua a starti sempre appresso con
nessuna idea se non le tue, rese caricaturali. Fingere di stupirsi quando il tuo
posto l’ha preso un altro perché pensava di essere un pochino più furbo di te.
Davanti al portiere la sbagliavo sempre, e allora, piuttosto di tirargliela addosso preferisco fare come un Balotelli che stasera solo davanti al portiere la butterà a
lato per non lasciare al portiere la soddisfazione di poter dire di aver preso
gol da Balotelli.
Sincronìzzati: ma vai veloce, perché il fondo del caffè nella tazzina ti può predire il futuro già dalla mattina. Il messaggio non è criptato, in faccia ti è arrivato. Se la luce del faro gira più veloce, sincronìzzati. Perché il pinot bianco di Giorgio Grai ti può spostare a est la Borgogna. Perché Marchesi ti può anche far mangiare un Pollock, ma non un pollo.
Perché un Campari shakerato non è più ubriacante di uno spritz fatto male. Perché Girofle vuol dire garofano anche in salentino, sincronìzzati. Perché è vero che la bottarga buona è di Cabras, ma si fa con il muggine. Perché se l'aceto è veramente di-vino, ti fa digerire anche il peperone e il cipollotto crudo. Perché il vero veganismo non esclude il crudismo, ma purtroppo neanche il falso balsamico.
Perché la frugalità sarà anche verità ma chi ce la fa? Perché mezza porzione non fa ingrassare, ma non può essere anche abbondante. Perché non è bello essere il più ricco del cimitero. Perché avevi capito male, non ti han dato del co@lione, non ti offendere, non chiamare The Police; con questo caldo a 35° ti hanno dato semplicemente del condiglione, e "ti" hanno fatto bene, se ti è arrivato integro il message in a bottle. Un ultima dritta: se sei al servizio tira forte, e possibilmente sulle righe Click, prendi il ritmo e picchia duro.
... meglio con, ma anche senza bottarga di muggine Oro di Cabras, che me la mangio da sola a tranci. Il condiglione: pomodoro cuore di bue, cetriolo, cipolla, cipollotto, aglio nuovo intero, olive taggiasche, sedano, peperone giallo e rosso, basilico... fleur de sel, olio d'oliva, aceto di vino e via così, tutto a crudo, tutto tagliato a piccoli cubetti- si dice concassè- e poi un'ora in frigo. Pane croccante strapazzato con una testa d'aglio, meglio se prima grigliato, oppure bagnato sulla mollica, dipende da come sei sincronizzato. Se non ci hai messo troppo peperone ci puoi bere sopra un grande bianco come questo, ma se ci hai messo parecchia bottarga allora il Girofle ha il suo perché.
Sta fermo sulla porta di uno
degli ingressi di un cinema multi-sala a staccare i biglietti d’ingresso al
pubblico pagante. Sorride a denti stretti, cortesemente, gentilmente,
nascondendo il malcelato sconforto. Sono entrati tutti, il loro spettacolo sta
per cominciare, può tornare per un ora e mezza alla biglietteria a dire
banalità con le ragazze impegnate a vendere altri biglietti che lui più tardi
dovrà spezzare in due, come la sua carriera.
Ha il tempo per uscire sul
marciapiede e fumarsi una sigaretta con il collega, esattamente come gli
chiedeva di fare il suo chef quando voleva condividere qualche minuto di
dialogo confidenziale senza che i ragazzi di sala li ascoltassero, così, per
attenuare la tensione prima del servizio, per concordare dove collocare in sala
quel tavolo apparentemente problematico prenotato da tre settimane. O perché
quel singolo prenotato da qualche giorno puzzava di guide lontano un
chilometro. E poi il nuovo di cucina? Ce la farà? E il sommelier? Hai visto
come si comporta? Sempre a prendere in mano il pallino e sovrastare la sua
figura.
Peccato, non c’è più spazio per
chi al gueridon riusciva a smontare
un’intera Canard de Challans solo con
forchettone e cucchiaio, senza neppure usare il trinciante, che veniva utile in
caso di Gigot d’agneau de Sisteron o
per un tenero Carrè d’agneau de Pauillac.
La salsiera, la cloche, un giro di
salsa, la collocazione del contorno, la chiusura della cloche e il servizio teatrale sotto il naso dei clienti stupiti da
tanta maestria.
Ma lo chef ormai voleva
porzionare tutto in cucina, era più pratico, più preciso, meno rischioso di un
servizio in sala e, anche il tempo è denaro, e quindi caro il mio Maitre, non
puoi prenderti tutto quel tempo di stare al tavolo per dividere la polpa dall’osso
di quel Turbot in casseruola; non
puoi diliscare e ricomporre quella Sole
meuniere, ci pensano a farlo in cucina per te.
Ha accolto amabilmente migliaia
di persone, riaccompagnandole elegantemente fino alla porta per un sorridente
congedo. Ha fornito loro la grande carta, ha raccontato il menù, ha preso la
comanda, consigliando e delineando una sequenza breve o lunga di portate che
potesse essere la migliore per ognuno dei commensali. Ma ormai era la Signora, la moglie del
proprietario che se ne poteva occupare, libera da altri impegni, sempre vestita con quegli abiti
vistosi, e intrisa di quel profumo troppo concentrato per non alterare l’atmosfera.
Lui, che al massimo masticava una
mentina mezzora prima del servizio, solo per essere certo che l’unico profumo
che il cliente potesse avvertire fosse quella di una fresca nota balsamica nell’aria.
Lui che aveva tenute aperte le finestre fino all’ultimo, perché come al solito
lo chef si era dimenticato di accendere la cappa in cucina e il sentore di jus de viande aveva compromesso quel
lieve profumo di deodorante che usava spruzzare due ore prima in sala,
arrivando sempre mezzora prima degli altri al ristorante per rifinire ogni
dettaglio: dalla pulizia del bagno, la stiratura delle tovaglie, l’apparecchiatura
dei tavoli, l’aggiornamento della carta e dei menù.
Menù e piatti che avrebbe avuto
piacere di continuare a raccontare, ma che i clienti desideravano fossero
spiegati direttamente dallo chef, che usciva con piacere per qualche minuto a
salutare ogni tavolo, prima e dopo il servizio, togliendogli anche quel momento
di centralità.
I sommelier stavano diventando
sempre più bravi ed eccentrici. Del resto, se dovevano abbinare un piatto ne
dovevano conoscere tutti gli ingredienti e il tipo di cottura, esattamente come
doveva sapere lui, però il cliente era più incuriosito dal gioco di contrasti e
di armonie che si creavano tra il piatto e il vino, e dunque piano piano lasciò
fare. I clienti gradivano i giochetti del sommelier, e per lui di spazio ne
rimaneva ormai poco: prendere la comanda, portare avanti i piatti pieni e portarli
indietro vuoti.
All’accoglienza arrivava prima la Signora, al congedo era di
nuovo lei a stringere la mano a chi se ne andava, previa stretta di mano allo
chef. Al tavolo il dialogo era diventato un affare del sommelier.
Marginale a tutto, si rese conto
progressivamente di essere diventato un buon cameriere. Aveva fatto la carriera
andata e ritorno. Aveva cominciato come cameriere, era diventato Maitre,
Direttore di sala, ed era infine tornato ad essere un cameriere a causa dell’estinzione
di un ruolo.
Spense la sigaretta nel
posacenere posto fuori dall’ingresso del cinema, tornò come un automa verso la
porta che dava alla sala dove lo spettacolo era quasi terminato, attese che il
pubblico uscisse e salutò singolarmente e amabilmente ogni cliente in uscita
dalla sala. Qualcuno ricambiò il saluto chiedendosi del perché di quel gesto
non dovuto, addirittura incongruo a quel ruolo, a quello di un qualsiasi stacca
biglietti.
No,
non si tratta dell'ultimo film di Woody Allen... Quest’ultimo,
ambientato nella città eterna, malgrado un cast di tutto rispetto di
cui fa anche parte il genialoide enfant terribile del cinema
statunitense, ha lasciato, anche noi, santi bevitori, a bocca
asciutta...
No,
il titolo si riferisce al meraviglioso mondo del Whisky,
la cui
paternità è da sempre contesa tra scozzesi e irlandesi.
Ma non
solo… perché sono oramai anni che l’egemonia scozzese stessa
viene contestata da un gruppetto di paesi emergenti, tra cui spicca
il Giappone.
Il
concetto di Whisky giapponese è stato a lungo sottovalutato,
addirittura considerato un'aberrazione…. A torto però, perché
piaccia o meno ai puristi, il whisky Made in Japan, ha dimostrato di
non avere nulla da invidiare a nessuno, e non è a caso se la
notorietà dei Single Malts come dei Blends giapponesi ha da un bel
po’ varcato i confini nipponici.
Clima, purezza dell'acqua, presenza di torbiere... il Paese del Sol Levante aveva naturalmente tutte le carte in regola per produrre whisky. Da lì a proporre Single Malt e Blends in grado di competere con i più grandi whisky scozzesi, ci voleva un asso oltre la Manica… Però era senza contare sulle leggendarie tenacia e precisione giapponesi. Sì
perché i Giapponesi non si sono limitati ad accarezzare il sogno di
emulare il maestro scozzese... Hanno fatto loro, con grande maestria,
un know-how secolare.
Ma facciamo un passo indietro.. Le origini del whisky giapponese risalgono all’inizio del secolo scorso per merito di Masataka Taketsuru e Shinjiro Torii che ne sono stati i pionieri. Agli inizi del'900, il giovanissimo Taketsuru, figlio del titolare di una fabbrica di Sakè, si iscrive all'Università di Glasgow per imparare la difficile arte del Whisky. Dopo diversi anni di permanenza in Scozia, il giovane torna in patria con tanto di moglie scozzese, e viene assunto alle dipendenze di Shinjiro Torii, che fonda nel 1923 la prima distilleria giapponese nella valle di Yamazaki, nei pressi di Kyoto. Nel 1934, Taketsuru impianta la propria distilleria a Yoichi sull'Isola di Hokkaido, nella zona più settentrionale del Giappone. Nel giro di un secolo, la distillazione dei cereali nel Paese del Sol Levante ha conosciuto uno sviluppo straordinario, in termini di quantità ma soprattutto di qualità, permettendole di godere oggi di una fama oramai internazionale.
Tra le distillerie attualmente in attività, quelle di Yoichi e Miyagikyo sono situate nel nord del Giappone, quelle di Chichibu, Karuizawa e Hakushu nei dintorni di Tokyo, e quella di Yamazaki ubicata più a sud, non distante da Kyoto e Osaka.
I
Single Malt millesimati Karuizawa hanno oramai raggiunto l’olimpo
dei miti. I Blend firmati Nikka, grazie alle loro caratteristiche
organolettiche uniche, sono particolarmente seducenti. I Malt Yoichi
ci riconducono al torbato dei Malt di Islay.
La
peculiarità dei Whisky Giapponesi risiede nel fatto che, oltre a
possedere la potenza e il carattere propri dei Whisky Scozzesi, hanno
i modi raffinati e accattivanti di una Geisha. Degustare un Whisky
giapponese è un viaggio tra tradizione e modernità, con un tocco di
esotismo.
Un ventina di scatti da una delle migliori tavole pugliesi, per qualcuno forse la migliore. Ma senza lanciarsi in pericolosi assolutismi, sicuramente una situazione piacevolissima già a partire dalla collocazione del locale, poi per l'ambiente, il servizio, la cucina molto buona, il calore della gestione famigliare, la disponibilità di servizio al bicchiere, ( nella serie qui sotto manca addirittura un Chateau Chalon ) nello spazio salottiero dove fermarsi prima o dopo per un aperitivo o per un digestivo, ma sanno fare anche un ottimo Hendricks. Quindi, nel complesso un ottimo ristorante, perché al ristorante non si va solo a mangiare, ma anche per guardare il mare dal proprio tavolo, dai rilievi di una collina, per far due passi in un borgo antico, per bere e chiacchierare, per star bene. Un grazie alla famiglia Magistà per l'impeccabile ospitalità.
Quenelle di patata e fagiolini, crumble, pomodoro secco e menta
I tre tipi di pane, con olio, alla rucola, al basilico... ecc
Scampo al naturale con tartufo estivo
"allievo" con mandorle e gelato di mandorla
Polpo arrosto e stracciatella al basilico
Cotolette di alici panate di mandorle e farcite di ricotta di masseria, uvetta e misticanza all'acqua di pomodoro.
Minestra di fave e cicorietta, cipolle e peperone friggitello fritti, pane di campagna croccante.
Bietole e pomodorini, brodetto di cozze tarantine e uova di tonno