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lunedì 16 dicembre 2013

Testalonga 2012


Di fronte a queste due bottiglie dell’annata 2012 appena uscite dalla cantina Testalonga di Antonio Perrino da Dolceacqua tiro un sospiro di sollievo.

Arrivo da un assaggio di vini di Ca’ Viola, assai stupito dal fatto che formidabili enologi di fama internazionale riescano ormai a far sapere di vaniglia anche vini affinati in botte grande, in un caso, e di coprire della medesima nobile stecca Bourbon anche vecchie vigne pluridecennali.

Il progresso, in questo senso, mi lascia marinato di spezie dolci come un foie gras prima della cottura. Sensazione apparentemente confortevole, come quando le verticali di vini imbottigliati sotto la medesima etichetta si rivelano essere più che altro stesi in orizzontale, e neanche ondulati come in un ideale grafico che segua le variazioni delle annate.

Ogni volta invece, quando si tratta di tradurre in sensazioni i liquidi idroalcolici messi in bottiglia da Antonio Perrino, i sensi assopitisi nella vaniglia e nelle spezie dolci si risvegliano, le certezze pregresse vengono regolarmente messe (giustamente) in discussione, anche perché i riferimenti sono sempre pochi, nonostante Nino sia arrivato alla sua cinquantunesima vendemmia di questa vita, e quindi si presume che il vino lo abbia imparato a fare da un bel po’. Si dice che un vignaiolo in media abbia non più di quaranta possibilità in una vita per sbagliare i suoi vini. Nino è andato ben oltre la statistica, con tutte le irregolarità imposte dalla mano dell'uomo e dalla natura.

Insomma, dovrebbe aver inteso attraverso la sperimentazione empirica come si possa trasformare dell’uva matura in un vino buono senza aiutini esterni, ma rendendosi conto nel tempo e negli anni che le cose non andavano quasi mai esattamente come avrebbe voluto, seguendo le famose aspettative. Mi pare che ormai si stia godendo la cosa più bella di questo mestiere artigianale, e cioè la lucida follia del lasciar fare attraverso il suo savoir faire: che sia il suo vino a sorprenderlo, attraverso una natura sorprendente.

Farsi sorprendere dalla natura che fatica a ripetersi sempre nella stessa maniera, stagione dopo stagione, annata dopo annata. Si tratta della vecchia e solida condizione Borgognona, quella che ad ogni degustazione di fronte al vigneron indipendente, indipendente anche dagli enologi, sfocerà nella consueta conclusione pratica di fronte a vini diversi, potendo solo concludere che sarà stata ancora una volta l’annata a farsi sentire ancor prima della mano del’uomo, che la potrà guidare, contrastare o assecondare, ma nei limiti posti dalla materia prima portata in cantina.

Che cosa sia dunque accaduto in vigna l’anno scorso da Nino non è di nuovo dato saperlo, fatto sta che l’edizione 2012 dei suoi vini prodotti segna un singolare passaggio di consegne. Nel senso che al contrario della precedente annata, in cui fu il Rossese ad essere considerato il migliore mai messo in bottiglia, stavolta è il bianco da uve Vermentino a lasciare un segno indelebile sul futuro della piccola grande storia dei vini di queste parti.

Il colore intenso è quello che ti aspetti, ma è già dalla pulizia di sentori al naso che capisci che qualche cosa di diverso, di più fine ed incisivo deve essere successo in fase di fermentazione spontanea da lieviti indigeni, che stavolta hanno deciso di donare al vino finezza, nerbo e virilità, già da subito, senza dover neppure far passare il vino in caraffa per far sparire qualche sentore non troppo elegante presente spesso nei vini delle passate annate.

Vino deciso, lineare e convincente da subito e senza mezze misura, e dalla sana bevibilità senza effetti collaterali. La seconda piacevole osservazione andrà fatta al momento dell’assaggio, perché la prevalenza della sapidità, quasi della salinità al palato, ricorda l’effetto che provocano molti Champagne grand cru, dove lo spesso strato gessoso avrà come al solito trasmesso alle uve e quindi al vino la caratteristica sapidità che fa piangere la lingua, facendo venir sete, bicchiere dopo bicchiere.

Anche il Rossese, oltre a borgogneggiare come d’abitudine, ha acquisito una minima quota della medesima anomalia, pur mantenendosi al naso sulle piene note di mora selvatica, timbro di garanzia di un buon Rossese di Dolceacqua. Conclusione e consigli per gli acquisti, il Bianco Testalonga 2012 insieme al Rossese 2011 sarebbero una coppietta da metter via a lungo, cominciando a bere il Rossese 2012 insieme al bianco 2011, perché mai nulla è uguale se poco addomesticato.


 gdf

  


giovedì 3 febbraio 2011

Il vino del giorno : Testalonga 1973 . Della longevità del Rossese.

- gdf 2011 -

E’ molto dibattuto questo argomento sul web ultimamente. Sinceramente la questione mi appassiona poco e non perché non valga la pena di parlarne, ma perché ormai non mi stupisco più del risultato di uno stappo di vecchio Rossese di Antonio Perrino, di Guglielmi o del fu Croesi.

Otto volte su dieci il risultato è più o meno il solito: stappo perfetto con uno schiocco secco e convincente, colore rubino scarico con un unghietta appena mattonata, naso evoluto di more selvatiche e tartufo nero, qualche traccia di humus sul fondo . Dieci minuti sono più che sufficienti perchè la reliquia si riprenda dal lungo sonno e si manifesti in tutta la sua grazia donandoci sensazioni di pienezza di sapore pressoché integro e lasciandoci in bocca una scia di frutti rossi più o meno confit guarniti da golosa gourmandise. Si, sembra si stia bevendo un vecchio Chambolle Musigny, ma è perché quelli sono i miei riferimenti e qui ritrovo sempre parecchi parallelismi con i pinot noir nordici di Borgogna. Ancora una volta siamo andati indietro parecchio, diversamente dalle performance anni 60 di Guglielmi, questa volta ho voluto ritornare sul contraddittorio 2003, che a due anni dall’imbottigliamento si preannunciava grandioso, invece aveva ragione Guglielmi, perché oggi il suo 2003 è arrivato mentre è il 2004 ad avere ancore tante cose da raccontare. Molto gentile il 2003, piacevole, ma la scarsa acidità l’ha piuttosto appiattito su una dolcezza che ne limita un po’ la corsa verso il futuro. Viceversa il gran colpo stavolta è arrivato dalla cantina Testalonga di Antonio Perrino, perché è stato addirittura un 1973, dopo il ‘78 della scorsa visita a far saltare il banco. Bottiglia notevole bevuta in meno di un ora, anche perché in questi casi non bisogna fidarsi troppo a lasciare andare l’aerazione per un periodo prolungato. Il vino potrebbe andarsene nel vento tra un fruscio di seta lasciandoti il bicchiere pieno di liquido ma in realtà svuotatosi di tutto il meglio. E basta con il vorticoso agitare il bicchiere, non serve, è già tutto a disposizione senza far ginnastica ai polsi. L’unica cosa che continua a stupirmi non è la piacevole esuberanza da giovane e la grande e nobile evoluzione progressiva lungo i decenni di permanenza in bottiglia. Quello che mi stupisce è il prezzo ridicolo che continua ad avere sul mercato. Un vino di questo livello, dove ormai sono parecchi i produttori che si sono liberati dello stereotipo del vinello puzzolente degli anni ’90, dovrebbe poter spuntare un prezzo superiore ai 10 euro e non collocarsi in quella fascia 7/9 euro che ne fa uno dei migliori rapporti qualità prezzo sui vini autoctoni italiani ma che non ricompensa adeguatamente i produttori.




Antonio Perrino, cantina Testalonga. Dolceacqua

Enzo Guglielmi, Soldano. Con Franco Solari.