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lunedì 30 agosto 2010

Nicolas Joly, l’uomo de La Coulèe de Serrant


Chissà quanto tempo rimane a Nicolas Joly per accudire le sue splendide vigne .
Il globe trotter più bio-dinamico del pianeta impegnatissimo a portare per il mondo il metodo e il pensiero di maggior tendenza degli ultimi venticinque anni ha fatto proseliti ovunque grazie a fascino e carisma, ma soprattutto dimostrando che i risultati della ricetta Steineriana applicata sull’appellation Savennières ha pochi eguali al mondo.
I terreni della denominazione Savennières tracciano una linea lunga una decina di chilometri lungo il corso della Loira in corrispondenza di due località ( La Possonière e Bouchemaine ) che devono la loro notorietà mondiale e il conseguente inserimento nell’agenda dei conoscitori dei grandi vini di questo pianeta grazie proprio alle etichette di Nicolas Joly.
Dei circa 350 ettari che delimitano la possibilità di coltivazione di chenin nell’appelation solo un terzo sono produttivi e la resa per ettaro è considerata tra le più scarse tra i vini bianchi francesi.
Le caratteristiche uniche della conformazione territoriale costituita essenzialmente da scisti prendono localmente diversi nomi a seconda della prevalenza di elemento acido o basico e la scarsa profondità di terreno che copre le rocce rendono particolarmente favorevoli le condizioni per la produzione di vini bianchi di alta qualità.
La cultura è la storia hanno indicato come unico cèpage compatibile con le condizioni terreno/clima della zona il vitigno chenin, in grado di produrre vini che genericamente si esprimono nel bicchiere su toni mielosi e floreali . La struttura, l’acidità, il frutto e un leggero ritorno amarognolo si combinano armoniosamente e sottolineano una classe e una complessità originalissima per un vino bianco della Loira.
Le due appelations di grande rilievo sono denominate Roche aux Moines e Coulèe ( vallone ) de Serrant e si evidenziano nel panorama della zona come speroni rocciosi protesi verso il fiume
Su questi terreni la biodinamica è stata applicata già dall’inizio degli anni ottanta e i risultati straordinari hanno contribuito alla diffusione della filosofia applicata un po’ ovunque nel panorama vinicolo. Oltre ai sette ettari della denominazione più nota , essendo considerato il vino de le Coulée de Serrant tra i più grandi di Francia , anche i tre ettari di Clos de la Bergerie, situati all’interno della denominazione Roche aux Moines hanno contribuito alla diffusione mondiale dei vini di Nicolas Joli, anche in funzione di un prezzo più che accettabile.
Ancora più economico l’altro Savennières tout court , che è commercializzato sotto l’etichetta Les Vieux Clos.
Si tratta nel complesso di una quindicina di ettari da cui si ricavano mediamente 45-50.000 bottiglie annue discretamente rintracciabili in prestigiose enoteche o ristoranti di fascia medio alta.
Tuttavia non ritengo opportuno bere le Coulèe de Serrant al ristorante.
Ciò perché questo è un vino non si apre agevolmente neanche a provocarlo con una frettolosa caraffatura. Ormai le esperienze plurime ci dicono e ci confermano che questo vino non ti consente di apprezzarlo a breve distanza dall’apertura. Genericamente moltissimi vini appena vengono stappati già fanno intuire quale sarà l’esito della bevuta. In questo caso il lungo periodo da dedicare all’ossigenazione sarà quanto mai opportuno e significativo, anzi direi indispensabile.
Leggendo sui sacri testi che questo è un vino da aprire e caraffare 24 ore prima del suo consumo potremmo pensare ad una forzatura, ad una enfatizzazione spropositata, invece qui non si scherza, qui veramente il vino continua ad evolversi, a sgranchirsi , a stiracchiarsi come un gatto pigro e per nulla voglioso di fare le fusa.
Ma un vero amante dei grandi vini, invece di abbandonare a se stessa la caraffa per una notte, dovrebbe attingere alla caraffa periodicamente, diciamo ogni ora, prelevando qualche centilitro di liquido e cercare di individuarne le diverse sfumature, le diverse sensazioni che si avvertono in progress. Alla fine della giornata si avrà un bloc notes pieno di appunti che sembrerà un diario di viaggio. Ed un vero viaggio sarà stato, attraversando giardini di fiori e frutti, cogliendo le profonde mineralità della roccia.
Questo è un vero vino da guardiano del faro.
Un vino lento, paziente, che ti chiede considerazione , calma e attenzione , da bere da solo, senza condizionamenti, senza premura, seduto per ore a fissare l’orizzonte dell’oceano dalle coste bretoni, un bicchiere ogni tanto, con il ritmo della luce del faro che gira, che torna, con uno sguardo periodico da rivolgere alle spalle, non per mancanza di fiducia, ma solo per ricordarsi da dove scende la Loria.
Tanti pensieri, tante cose in mente che scivolano via, dalla bottiglia al bicchiere, che a volte sembra mezzo vuoto, e a volte mezzo pieno.

Da degustare, un poco alla volta come i vini di Joly, l' ultimo cd del bravo Joe Purdy

lunedì 23 agosto 2010

Chateau Chalon, Jean Macle – Jura -


- Almeno sei anni e tre mesi. O come dicono i vecchi, 6 anni, 6 mesi, 6 giorni.

- Così tanto deve restare in botte il Vin Jaune de Chateau Chalon ? Diabolico !

- Certo, e senza rabbocchi. Nulla di diabolico, un 666 tutto naturale.

- Ma allora l’aria che occuperà lo spazio lasciato libero dal liquido ossiderà il vino ?

- Si, un pochino si, i barilotti sono un po’ porosi , non completamente ermetici e una considerevole parte , quasi il 40% del vino evapora nel corso degli anni (la cosiddetta “parte degli angeli “). Nessun riempimento viene fatto. Uno strato spesso del lievito di Flor, assomigliante ad una schiuma bianca si sviluppa sulla superficie del vino e ne impedisce l’eccessiva ossidazione, e così il vino assumerà una complessità e una distinzione unica !

Questo vino di tradizione ultra millenaria continua ad essere prodotto per il piacere dei più sofisticati enofili e dei goduriosi gourmet , così come per la gioia di alcuni sommi chef europei che ne hanno fatto uso per realizzare salse sontuose.

- Caspita ! Usare un vino così nobile e prezioso per farne una salsa ? Ma ne vale la pena ?

- Beh ! Chi ha mangiato all’Arpege Les Aiguillettes de homard aux vin jaune di Alain Passard lo potrebbe confermare.

La complessità e lo stile unico ha fatto storia , unico come il territorio protetto similmente ad una serra, unico come il vitigno da cui viene ricavato , le Savagnin , unico il formato originale della bottiglia bassa e tozza da 62 cl, il Clavelin . Flacone non ammesso all’imbottigliamento per nessun altro vino francese e mantenuto tradizionalmente in uso qui per ricordare l’inevitabile perdita di volume dell’originario litro di vino lungo i sei anni di affinamento.

Questo in senso generale, in dettaglio la proprietà storica di Jean Macle e del figlio Laurent, che ormai da tre lustri si occupa direttamente dei fatti di cantina, è considerata la più reputata su questa AOC del Jura , ma alcuni altri produttori possono vantare delle riuscite eccellenti sulle annate più favorevoli. L’importante è avere la stessa pazienza che hanno avuto i viticultori nel lasciare riposare sei o più anni in cantina il loro vino. L’acquirente del vino farà bene a rivolgersi ad un millesimo ben maturo per avere grandi soddisfazioni. Gli ultimi due che ho bevuto erano dei millesimi 1992 e 1982 . Il secondo era nettamente più complesso ed espressivo, e quindi niente paura, qui si può rischiare con una certa tranquillità sull’acquisto di vecchie bottiglie, le chances di passare una bella serata saranno altissime. Questo è un vino che sopporta bene anche una certa incuria, tanto lui un pochino ossidato lo è già, e quindi anche se qualche “caviste” superficiale non l’avrà conservato proprio come si deve lui sa come difendersi.

Le vigne di Jean Macle si trovano nel cuore della denominazione Chateau Chalon, su un ripido pendio di “marne bleu “ ricoperta di pietre di calcare, ai piedi di una parete rocciosa. La proprietà ha in dote una dozzina di ettari vitati, di cui solo il 30% è savagnin, il resto è tutto chardonnay, con il quale si produce un dignitoso Cote de Jura, ma ovviamente il grande interesse degli appassionati è quasi tutto orientato verso Chateau Chalon .

La rarità del prodotto è dovuta anche alla rigida legislazione che prevede che all’interno dei 50 ettari di Chateau Chalon il vin jaune possa fregiarsi anche della menzione comunale sono negli anni in cui tutte le condizioni previste siano state raggiunte.

Dal 1958 la commissione di controllo AOC passa attraverso le vigne qualche tempo prima della vendemmia ( tardiva ) per verificare se i grappoli d’uva abbiano o meno i requisiti perché il vino possa fregiarsi della denominazione comunale.

Non sto a farla lunga ma questa commissione è composta da una serie di organismi , istituti e associazioni il cui numero è per lo meno sorprendente. Come faranno a trovare un accordo ?

Il Jury AOC valuterà e deciderà se la tale annata è adeguata , e se si potrà stampare al collo del Clavelin anche il sigillo d’onore, se no il vino si chiamerà semplicemente Vin Jaune . E a dir la verità sarà spesso il Vin Jaune a stimolare la fantasia dei grandi chef per realizzare la salsa per una poularde aux morilles, da servire con un calice di Chateau Chalon, che a quel punto troverà uno dei suoi matrimoni d’amore.

Le caratteristiche di questo vino sono molto complesse. Il colore già annuncia che cosa si andrà ad affrontare. Il naso si arriccerà su se stesso , le narici si apriranno a tanta potenza abbigliata da toni esotici di curry e sensazioni nette di noci, si, più che mandorle noci . Proprio il sentore di noci è la firma sensoriale che darà il via al viaggio , dove l’ampiezza e il volume satureranno il cavo orale. La sensazione di pulizia è totale, quasi come affrontando uno sherry secco .

Bisognerà provvedere anticipatamente ad acquistare un paio di tranci di Comté con diverse stagionature per creare l’abbinamento più classico e più semplice possibile che si possa fare con questo vino.

Sono quegli abbinamenti dove non c’è nulla da inventare, sono quelli spontanei, quelli che si rincorrono istintivamente su tutti gli elementi che concorrono a creare il circuito virtuoso della magica miscela chimica che chiude un cerchio sensoriale, che continua a girare intorno al vino, il formaggio, due gherigli di noci fresche e un pane all’uva.

E Chateau Chalon che gira, che gira, che gira nel bicchiere…

Voilà, c’est tout . Pas belle la vie ? :-)

gdf

UNO CHE INVECE NON SI OSSIDA MAI:

venerdì 20 agosto 2010

Clos de Tart a Morey St Denis, il mito































E' con soggezione e circospezione che mi accingo a parlare di uno dei più classici e mitici vini di Francia. Quasi in punta di piedi, perché qui a Morey St. Denis, in piena Cote de Nuits, il blasone e la storia di Clos de Tart non sono secondi a nessun Chateau o Domaine dell’esagono.

Pare contraddittorio quindi venire a conoscenza del fatto che prima della legislazione delle denominazioni d’origine del 1936 i vini bianchi e rossi del comune di Morey fossero sovente commercializzati sotto le denominazioni circostanti più note al pubblico dell’epoca, e cioè Gevrey Chambertin e Chambolle Musigny. Ancor più stupefacente che ciò accadesse all’interno del comune dove oggi la quantità di Clos e di Grand Cru non sono secondi ad alcun altro comune della Cote de Nuits. Sono infatti ben cinque i grand cru di Morey St.Denis:

Clos de La Roche, Clos Saint Denis, Clos des Lambrays, Bonnes Mares e appunto, Clos de Tart.

Una sequenza che semplicemente rileggendola farebbe accapponare la pelle ad ogni appassionato di Borgogna.

Clos de Tart, contrariamente a quasi tutti i grand cru di Borgogna è un Monopole, cioè l’intero vigneto situato all’interno dei caratteristici muretti di pietra appartiene totalmente al medesimo proprietario, la famiglia Mommessin, quelli del Beaujolais . L’esatto opposto, per esempio, del famosissimo grand cru che fa di nome Clos de Vougeot, dove i circa cinquanta ettari interni ai muretti del Clos sono sbriciolati in circa ottanta parcelle appartenenti a diversi proprietari.

Questo è un altro dei tipici rompicapo borgognoni che allontanano da questi vini gli appassionati meno cocciuti e giustamente avviliti da brutte esperienze , perché se stasera decidete di permettervi un Clos de Vougeot senza aver identificato con criterio un produttore degno di fiducia avrete molte possibilità di versarvi nel bicchiere una solenne ciofeca, mentre se decidete di permettervi un Clos de Tart, se non sbagliate la scelta dell’annata avrete certamente nel bicchiere uno dei più sontuosi vini di Borgogna.

Questo per diversi motivi, primo fra tutti la possibilità di scelta dal volume di frutto raccolto nelle diverse parti del Clos, che occupa la discreta superficie di sette ettari e mezzo e consente una produzione media di 25000 bottiglie annue. Con il resto della produzione non ritenuta idonea a reggere il rango di grand cru si farà un secondo vino senza troppe pretese, la Forge .

Questo grand cru possiede un paesaggio interno con rilievi diversi rispetto al vicino di muro, il Clos de Lambrays, avendo al suo interno delle parcelle dove affiorano rocce differenti sui diversi versanti ed è attraversato da una vena calcarea comune anche al medesimo Lambrays ed al mitico Bonnes Mares. Un’altra particolarità è l’allineamento di filari disposti invece che nel senso del pendio, nel senso perpendicolare ad esso, accorgimento raro in Borgogna, ma utile per limitare l’erosione della superficie della terra e a quanto pare anche per raggiungere una maturità ideale di frutto nelle annate troppo calde e dove si rischierebbe di vendemmiare una confettura. Cosa per altro avvenuta nel folle 2003 , il cui vino sembrava un Cote Rotie e il tenore alcolico aveva sfondato quota 16 ° .

Il buon Sylvain Pitiot in tutti gli anni che ha passato al Clos quale regisseur del Domaine ha sommato un’esperienza che gli ha consentito di conoscere pietra per pietra il suo terreno , conversando singolarmente con ogni piede di vigna e ottenendo da loro il massimo, e cioè i più grandi vini usciti sotto l’etichetta Clos de Tart.

Si usa generalmente associare il bouquet di Clos de Tart a quello dei suoi illustri vicini, ma volendolo identificare singolarmente io credo che questo sia possibile individuandone, nelle annate classiche, i sentori di fiori rossi, di frutti neri e rossi con la sensazione finale tartufata che controfirma la nobiltà del terroir.

Le ultime annate sono tutte diverse ma tutte molto interessanti per le diversità espresse dalla natura e rispettate in vinificazione. Anche qui, come spesso in tutti i rossi della Cote de Nuits, le annate problematiche sono per motivi opposti motivi la 2003 e la 2004, mentre il filotto successivo lo vorrei avere davanti per uno stappo selvaggio e senza ritegno. Probabilmente all’apice della forma anche la 2000 e la 2001, mentre la 1999 dovrebbe avere ancora molto da dire in prospettiva e quindi sarà meglio lasciarla coricata.

Tra le più vecchie annate bevute negli ultimi anni c’è stata una gradevolissima bottiglia di 1983, integra e gentilmente evoluta, abbinata con un fagiano in sfoglia tartufata. Tartufo nel piatto e tartufo nel bicchiere , bien fait!

Ma l’annata da sogno rimane però la 1996, che ho bevuto qualche mese fa con niente e che al primo impatto con il naso mi ha emozionato così violentemente da farmi esclamare: 100 !

gdf

mito con mito...


martedì 17 agosto 2010

Cabernet Franc d’autore, Clos Rougeard


















La pendule des Foucault cadence le temps d’une autre epoque. Celle où le rythme du vin n’était pas toujours celui du marché .

No, la citazione non allude al pendolo di Foucault, lo strumento appeso in una grande sala all’interno del Museo delle Arti e Mestieri , nel Marais, a Parigi . E non saranno i colpi di scena mirabilmente narrati da Umberto Eco quelli cercati dalla famiglia Foucault. Da loro il tempo passa lentamente e diventa uno strumento fondamentale per la maturazione e per l’ampliamento di ogni singola espressione, di ogni singola sfaccettatura che possa presentare il miglior Cabernet Franc in purezza che io conosca. Oggi, lontani dai templi del Marais, i guardiani del tempio dedicato al cabernet franc di Saumur- Champigny custodiscono le loro preziose bottiglie per lungo tempo prima di consentirgli di rivedere la luce del sole.
Si sa quando le bottiglie entrano, ma non quando usciranno.

Clos Rougeard è il Domaine che più di altri ha portato a livelli nobilissimi il vitigno che altrove, nel bordolese in particolare, è impiegato marginalmente e funge da contorno, da completamento all’uvaggio classico del sud atlantico dove però saranno i cugini più famosi ( merlot e cabernet sauvignon ) a recitare le parti di prime donne.

Qui, nel nord Atlantico, a qualche decina di chilometri da Nantes, all’interno delle zone a denominazione Anjou e Saumur si trovano una vasta gamma di terreni e di microclimi diversi che consentono a questa regione di produrre un po’ tutti i tipi di vini : bianchi fermi e tranquilli, secchi o morbidi, moelleux o liquorosi, effervescenti, rossi fruttati da bere rapidamente, rosati secchi o dolci , petillant… ed infine anche qualche grande rosso adatto ai lunghi invecchiamenti.

E’ appunto il caso del cabernet franc di provenienza bordolese, qui chiamato anche Breton, perché pare sia arrivato qui via mare, da Nantes, a suo tempo provincia bretone. Come dicevo, qui il clima è capriccioso assai, così vicino alle coste atlantiche dove la variabilità giornaliera è incredibile. Provare a mettersi in spiaggia in estate a La Baule per capire cosa intendo. La fuga e il ritorno in spiaggia dei bagnanti ad ogni cambio violento di situazione può essere diventata routine per i turisti parigini più temprati, ma per noi mediterranei, abituati ad andare al mare in tarda mattinata e rimanerci in santa pace tutto il giorno, questi repentini scrosci di acqua gelata intervallata a squarci di sole accecante diventano un incubo stressante.

In queste condizioni è ovvio che le annate buone per far del vino eccellente da queste parti non sono moltissime

Quando però le annate lo consentono, i fratelli Foucault etichettano singolarmente i due cru : Poyeux , 3 ettari di terreno silicio calcareo, i cui vini ricavati negli anni trenta hanno fatto storia, e pare siano tuttora ancora in discrete condizioni.
La seconda etichetta deriva dal singolo ettaro di Clos du Bourg, dove sarà il terreno argillo calcareo e l’età delle vigne ( più di 75 anni ) a consentire al vino di raggiungere valutazioni sensoriali sempre vicine al massimo . Il Domaine possiede anche un ettaro di Chenin con cui viene prodotto il Saumur Brézé , assoluto riferimento della denominazione, e non solo.
Ma sono i rossi ad emozionare maggiormente per le sensazioni autenticamente minerali e profonde che si aggrappano alle papille strapazzandole senza sosta, mentre invece la trama tannica sarà finissima e delicata, come lo è il colore, lontanissimo dalle forzature dei cugini del Medoc. Non troppo evidente il varietale, strumento di congiunzione tra terra e cielo, collettore di linfa tra le profondità della terra e i capricci del clima atlantico.

Una bella emozione potrebbe derivare dall’assaggio di un Clos du Bourg 2005, dal naso vertiginoso e dalla marcata mineralità che diventa quasi assillante. Secondo gli specialisti della zona, questo è il riferimento massimo, l’apice raggiungibile raramente per un vino rosso prodotto in Loira.
Insieme,a tavola, proporrei qualche costoletta d’agnello dei prati salati di Bretagna e Normandia, nient’altro , puro minimalismo gourmet.

Questi vini hanno una vita propria, sobria ma autorevole. Sembra che respirino, che si muovano autonomamente dimostrandosi a volte gentili ed amichevoli in gioventù, diventando vecchi ma saggi con l’età, epoca nella quale si potrà ascoltare il bicchiere narrare di storie antiche, attraversando tutti i decenni appena trascorsi ma come se fosse l’altro giorno, un tempo cadenzato diversamente dal vecchio pendolo di Foucault, trovando a volte un punto in comune nelle emozioni di confortevole solitudine, come calandosi nelle atmosfere misteriose dei saloni del Museo delle Arti e Mestieri del Marais .

gdf


giocoforza abbinarci Jeffrey Foucault ;-)


mercoledì 11 agosto 2010

Biodinamica spietata alla Fattoria de La Sansonnière



Biodinamica spietata in Loira , la Loira, dove la percentuale e la concentrazione di vignerons biodinamici per metro quadro è la più alta d’Europa.

- Olivier Buongiorno, ti è arrivato forse qualche biodinamico estremo che stasera volevo farmi venire male allo stomaco?
- Bonjour Robertò, ça va ? Qualche cosa di biò extremò ? Oui , qualche cosa è arrivata. Aspetta che te lo vado a prandere nel frigorifero.
- Perché in frigorifero ? Ti va a male se lo lasci sullo scaffale?
- Oui, dans ce vin pas des sulfites, guarda che cosa ha scritto sulla etichetta.
- Vin sans sulfites, conserver en dessous de 14° ? …
- Oui, mettilo nel frigorifero quando vai a casa .

Mark Angeli è chiaramente un tipo molto originale. Tanto per cominciare non si etichetta neppure come vigneron, lui si limita a definirsi Paysan à La Sansonniere, un contadino insomma, e le immagini che scorrono on web direi che confermano pienamente la coerenza talebana con le proprie convinzioni.
Convinzioni che si manifestano senza compromessi nel bicchiere. Questo è un personaggio da prendere tutto intero, per quel che è, e di conseguenza i suoi vini, che non è difficile intuire siano caratterialmente uguali al contadino con cui sono nati e cresciuti, e andrebbero quindi accettati e capiti per quello che sono.

L’aneddotica sul personaggio sarebbe ricchissima su temi come “Le soufre” , i solfiti, o sugli innesti che farebbero germogliare la vite dimenticandosi di far maturare il frutto . O il cavallo in vigna preferito al trattore, più leggero e affidabile..

La bottiglia a cui faccio riferimento nell’introduzione rimane però per me unica e particolare.
Forse perché fu la prima cosa che bevvi di questo produttore, sarà stato l’entusiasmo, sarà che avevo voglia di una cosa così, fatto sta che un vino così buono sotto l’etichetta de La Sansonniere non l’ho più bevuto.

Si tratta dell’Anjou Vignes Françaises en Foule annata 2001.
Quindi, se ho ben inteso si tratta di vigne a piede franco con densità di 40.000 piedi per ettaro.
Nonostante non abbia mai più visto da nessuna parte questa bottiglia e quindi non l’abbia mai più bevuta, il ricordo rimane piuttosto limpido, sicuramente più limpido dell’aspetto del vino, dove non ti stupiresti di trovarci dentro ancora un grappolo intero di chenin da pigiare.

Il frutto maturo, la mineralità integra data dal piede franco, lo spessore in bocca, l’acidità equilibrata, la gourmandise, la golosità estrema insita nel vino che invitava ad un continuo rabbocco del bicchiere fino alla fine, conservando una dolce persistenza che ti mette in pace con il mondo. Questa è biodinamica, questa è anche omeopatia cerebrale.

In seguito l’irregolarità riscontrata negli altri vini dell’ex studente di chimica tornato alle origini della vita delle piante non mi ha stupito, come accetteresti gli eccessi di carattere di un amico, così bisognerebbe prendere qualche passaggio a vuoto di un contadino che trasmette la sua sensibilità all’interno di un bicchiere. Proteggendo poco o nulla i suoi vini con il maledetto “soufre” per mantenerne il più possibile intatti i tratti originali e significativi, rischiando ovviamente di deviarne gli aromi, che a volta proprio nobili non saranno.

La Sansonniere dispone di cinque ettari di vigneti tra chenin, grolleau gris e cabernet franc.
Il vino più rintracciabile è La Lune, quasi mai all’altezza della fama del produttore , con deviazioni aromatiche che a volte allontanerebbero uno sciacallo, mentre gli altri, Les Fourchades e le Vielles Vignes en Blanderies nonostante la variabilità infinita di sfumature, tutto sommato rientrano in canoni che coniugano il varietale con la filosofia dell’uomo.
Per gli altri rimando alle precise schede tecniche dell’importatore : Velier

Due parole su un rosè, un curioso rosè beverino e simpatico da cabernet franc e grolleau che parrebbe raccolto con le uve surmature e si propone come una specie di succo di frutta all’aroma di melograno. Veramente curioso perché distrae totalmente la mente dai parametri più o meno classici che abbiamo in mente sul tema rosè.

In conclusione sapendo a cosa si va incontro gli spunti di commento qui non mancheranno mai , dallo stappo alla fine della bottiglia, magari combattendo con l’ovarius, l’originale e scomodo decanter che accelererà l’ossigenazione del vino, sia quando le puzzette sembreranno eccessive, o quando il vino si presenterà al meglio e sarà un piacere berlo con serenità, sapendo che sarà onesto oltre che il nostro palato anche con il nostro cervello e il nostro stomaco.

Però se non è buono no, se non è buono ma è sano e naturale non mi sta bene.
E’ pieno il mondo di roba sana e naturale che non è buona.
Non rifugiamoci tra le gonne della moda o dell’integralismo per giustificare il cattivo gusto.
gdf

naturale e "buonissimo" è pure sto Tom Petty che ha allietato la nostra estate con un disco splendido

venerdì 30 luglio 2010

Puligny Montrachet, Domaine Leflaive. Ancora una gran donna biodinamica

“ e proprio non vi riuscisse di trovare un biodinamico del Damaine D’Auvenay, la migliore alternativa possibile sarà un grand cru di Madame Leflaive”
Questa frase, qui riprodotta con l’approssimazione del ricordo, mi colpì nel profondo della mente e mi diede l’energia e la voglia di avvicinarmi ai vini del Domaine D’Auvenay.
I vini del Domaine Leflaive già li conoscevo , ma questa affermazione di Enzo Vizzari, pubblicata a suo tempo sul defunto Grand Gourmet mi spinse ad approfondire meglio la questione
Perché solo i grand cru ?
Chez D’Auvenay è tutto eccellente. Qui solo i grand cru?
Un’altra domanda, stimolata dal fatto che i vini del Domaine Leflaive venivano fatti da quel grande vigneron che si chiama Pierre Morey, a suo tempo impiegato anche presso il nobilissimo Domaine Comtes Lafon di Meursault. Perché Pierre Morey non riusciva a proporre una qualità simile a quella che otteneva dai vitigni di Madame Leflaive nei vini che uscivano sotto la propria etichetta?
Come sempre in questi casi è il bicchiere a dire la verità.
Il vino nel bicchiere, un colpo d’occhio, un approccio al naso e le risposte importanti saranno inviate al cervello tramite la vista e l’olfatto. Il gusto sarà a quel punto solo una non richiesta conferma di quanto già compreso con la prima indagine sensoriale.
Perché i vini di Pierre Morey non siano all’altezza di quelli che vinificava per Madame Leflaive per me rimane un mistero, o forse sarà semplicemente dovuto dalla diversità dei terreni, invece che siano solo i grand cru a destare la maggiore impressione tra la gamma di denominazioni disponibili sotto l’etichetta Domaine Leflaive è abbastanza vero. Nel senso che la tavolozza di territori di cui dispone il mitico Domaine di Puligny (25 ettari) è talmente ampia che le differenze rilevabili sono assolutamente didattiche e le nobiltà crescenti dei terroir sono evidenti quanto osservare una gradinata Possedere appezzamenti in quattro dei cinque grand cru della divina collina è di per se stesso già un valore teorico altissimo, in quanto consente già internamente al Domaine di rendersi conto delle differenze rilevabili tra un sontuoso e cattedralico Montrachet, l’estrema finezza di un Chevalier, un rotondo , grasso e untuoso Batard, da raffrontare ulteriormente con il vicino Bienvenues Batard per coglierne le sottili sfumature. Manca solo Criots all’appello, ma per quello c’è a disposizione l’altra Madame
Purtroppo non ho mai avuto il piacere di bere il Montrachet di Madame Leflaive, ma fortunatamente gli altri tre si, e quindi potendo prendere atto che l’affermazione di Vizzari era condivisibile. Però scorrendo la scala teorica di nobiltà di territori, è altrettanto rilevabile quanto il Puligny premier cru Pucelles sia vicino ai quattro grandissimi più di quanto la mappa dei vigneti possa evidenziare. Pucelles è un terroir che ha poco di meno dei grand cru con cui confina, e a voler far anche due righe di conti, è uno dei premier cru più costosi del comune di Puligny quello rintracciabile sotto l’etichetta Domaine Leflaive.
E quando il mercato ti premia con un prezzo molto diverso vorrà dire qualche cosa.
Gli altri premier cru: Folatieres, Combettes e Clavoillon sono generalmente una o due spanne sotto, anche se in determinati millesimi, come il 2006, Folatieres non è apparso inferiore agli altri, ma si tratta di eccezioni. La straordinaria finezza che ha sempre contraddistinto i vini bianchi del Domaine faro del comune di Puligny non è mai stata persa, pur attraversando il guado della biodinamica ed il passaggio di consegne tra il vecchio régisseur, Pierre Morey, ed il suo successore, Eric Remy.
Anna Claude Leflaive, la dama di ferro poco incline a vezzi e orpelli, incide profondamente con la propria convinzione sulla biodinamica applicata, quella vera, quella che ti arriva nel bicchiere pura e fragrante, lontana dalle mode e dall’opportunismo. Qui i millesimi da bere sono parecchi, perché l’esperienza e la convinzione hanno seguito armonicamente le varie evoluzioni climatiche degli ultimi due decenni, e quindi scarterei solo la 2003 dell’ultimo decennio, mentre del precedente saranno probabilmente arrivati con sofferenza alla soglia del 2010 le annate 1998,1997,1994 . Faccio questi riferimenti che potrebbero apparire lontani perché questi vini in gioventù si danno veramente poco. Qui, più che da altri produttori, una decina di anni d’attesa e quanto mai auspicabile e consigliata. Oggi si potrebbe bere con qualche soddisfazione un 2001, un 2002, e la reperibilità è tutto sommato non molto complicata per alcuni premier cru, mentre i prezzi dei grand cru raccomandati da Vizzari non sono affatto leggeri, ma se visti in paragone a quelli dell’altra grand Madame , beh, allora si può fare. Un bel Batard 2001 , come quello che ho bevuto l’ultima volta che sono stato ad Orta a Villa Crespi è un esperienza fattibile , ripetibile, e difficilmente dimenticabile. Solo un accortezza, lo dico perché sono in molti a confondersi, per disattenzione o superficialità.
Questo è il mondo del Domaine Leflaive di Anne Claude Leflaive, da non confondere con Olivier Leflaive, onesta maison de negoce che ha sede nel medesimo comune di Puligny Montrachet
Il Guardiano del Faro

tonificanti e corroboranti come i vini del Domaine Leflaive i Gaslght Anthems di American Slang sono il degno accompagnamento:

mercoledì 28 luglio 2010

Domaine de Trevallon – Eloi Durrbach










La sproporzione era quanto mai evidente.
Come poteva essere possibile che lo stesso vino fosse nel listino di un noto importatore italiano per una decina di euro quando la medesima bottiglia e medesima annata stava in carta al Louis xv a 180 euro ?
O lo chef de cave del Grand Hotel de Paris aveva perso il senso della misura oppure ne sapeva più di quanto immaginabile. E dall’altra parte l’importatore o si era dimenticato di aggiornare il costo storico del prodotto oppure si era reso conto che fosse meglio disfarsene.

Avevo imparato a conoscere i vini di Eloi Durrbach da pochi anni e ne apprezzavo le caratteristiche primarie da vino giovane per la sua finezza, per la trama rarefatta, la leggerezza alcolica e l’aderenza territoriale del suo bouquet che parlava di sud senza sembrare profondo sud.
Poteva un vino meridionale derivato da cabernet sauvignon e syrah che si reggeva su soli 12 gradi di alcol invecchiare così bene da poter essere venduto a 180 euro ?
Portammo via la prima cassa e poi la seconda rimasta e così verificammo che aveva ragione lo chef de cave del Louis Xv . Trevallon rouge 1988 era un grandissimo vino.
La sensazione alla cieca era di avere nel bicchiere un grande Medoc degli anni 60-70 ( prima della Parkerizzazione) , con il tipico tono di rubino chiaro rarefatto. Al naso però l’evoluzione del naso primario del cabernet virava coerentemente verso il goudron assistito da una fine speziatura di pepe e cannella, olive nere, foglia d’alloro e genericamente dalla garrigue provenzale, a cui la vigna portò via il terreno.

Proprio la percentuale alta di cabernet sauvignon e il sorprendente aggiornamento di quella A.O.C. portò Trevallon fuori dalla denominazione locale Baux de Provence, dovendo quindi accontentarsi non senza drammi di quella di V.d.P. du Bouches du Rhone. Etichettatura che anche per questo motivo gioca da una quindicina di anni sempre su elementi artistici diversi, frutto dell’amicizia storica tra la famiglia Durrbach ( papà René fu pittore e scultore) e personaggi del calibro di Pablo Picasso o Fernand Leger.

Tutto nacque nel 1973 quando la vigna cominciò a prendere il posto della garrigue e i primi tre ettari di vigna si prepararono a dar vita al primo vino nel 1976 .
Oltre a cabernet sauvignon e syrah, che compongono l’uvaggio di Trevallon rouge, furono piantati in seguito anche tre vitigni bianchi, due dei quali tipici del sud : roussanne e marsanne, oltre al solito chardonnay. Trevallon blanc rivela perfettamente le sue origini, comunicando le sensazioni minerali del suo territorio (calcare roccioso) e note di erbe aromatiche , fiori bianchi , arrotondate dalle sensazioni burrose portate dallo chardonnay.
L’esposizione nord preserva inoltre, quando possibile, una certa freschezza ed una discreta acidità al vino, consentendogli un buon invecchiamento. Trevallon blanc e rouge sono due grandi esempi di eccezioni alla regola, di come si possa partire dal nulla, su un terreno dove non c’è nulla di attinente, piantando vitigni a propria discrezione, e nel giro di pochi anni arrivare alla notorietà internazionale, per una volta non costruita artificiosamente dal marketing, ma solo per meriti reali dovuti all’evidente alta qualità che ha portato questo Domaine ad essere tra i più reputati in tutto il sud francese.

Non aggiungerei altro, questa è una zona della Provenza da visitare personalmente per carpire il fascino di questi luoghi così particolari dal punto di vista territoriale. Les Alpilles sono quanto di più contorto e affascinante, la luce che arriva in un modo diverso, la vegetazione a tratti esuberante e a tratti totalmente assente. Les Baux de Provence poi condensa tutto quanto, ma altri villaggi della zona sono assolutamente da visitare. Per ogni dettaglio sui vini di Trevallon c’è invece l’eccellente sito internet da visitare, molto accurato e profondissimo di informazioni, che arrivano a parlare ancora anche di quel Trevallon rouge 1988 definendone l’apogeo intorno al 2010. Proprio ora. Peccato non averne più.

Il Guardiano del Faro

aderenza musicale:

mercoledì 14 luglio 2010

Parliamo di Viognier? Condrieu Georges Vernay



L’osmogenesi è un carisma posseduto da alcuni Santi. Odori di santità.Quello di violette è stato spesso associato a Padre Pio.
Il simpatico episodio di cui vi voglio far partecipi oggi è relativo all’ingenua risposta che ricevetti da una sommeliera professionista piemontese il giorno che gli proposi di assaggiare insieme quello che evidentemente era il primo Condrieu della sua vita.
“la senti la violetta? “
“in un bianco?”
“ si, anche se non è un rosso piemontese qui dovrebbe uscirti anche la nota di violetta che senti spesso su rossi piemontesi..”
“ no, non ce la faccio, ma senti, ma con la violetta tu vedi anche Padre Pio”.
Questa è in sintesi quello che spesso capita con quei sommelier che hanno imparato la lezione a memoria e guai a cambiargli un riferimento, se no vanno in tilt.
Il Condrieu è un vino derivato dal gentile vitigno Viognier, ricco di profumi vicini all’albicocca, la mandorla e la pesca bianca ( …mi scusi Madame Leroy se ogni tanto ricado nel peccato mortale di usare descrittivi terreni…chiedo venia ma devo cercare di farmi capire…) e soprattutto è evidente la violetta che vorresti incontrare sul collo di una bella ragazza. Naturale, non quelle puzze provenzali Grassois che farebbero passare la voglia ad un' armadillo.
Quel che si incontra sul collo e poi in pancia alle bottiglie di Georges Vernay è proprio quel carattere delicato e profumato, acido il giusto e quando serve autorevole e consapevole, come chi sa il fatto suo ma non ti fa sentire deficiente quando vuole aprirsi al dialogo.
Questo piccolo Domaine , grazie all’intraprendenza del vecchio Georges, ed oggi della figlia Christine , ha avuto il ruolo di ambasciatore nel mondo vinicolo portando la denominazione Condrieu sulle migliori tavole del mondo.
Ruolo secondo me non usurpato essendo i vini di Condrieu tra i più originali del pianeta. Diversi totalmente da ogni altro Viognier e diversi da ogni altro vitigno.
Purezza minerale che sostiene il bouquet di cui sopra, di facile approccio gustativo per l’apparente bassa acidità , ma , quando derivati da vecchie vigne a basso rendimento, di una profondità e di una persistenza molto lunga e gradevole. Eccellente aperitivo, ma bevendo le cuvèe più complesse si potrà abbinarlo a piatti di un certa complessità. Le etichette di Vernay dove cercare i caratteri più espressivi sono “Coteau du Vernon” e “ Les Chaillèes de l’Enfer” , ma anche l’ altra : “Les Terrasses de ’Empire” è degnissima sorella , mentre più semplice e beverina sarà “ Les Pied de Samson” , vin du pays ricavato da vigne giovani declassate anche per l’altimetria non ritenuta idonea. Oltre alla decina di ettari di Viognier, di cui una parte declassata perché posti ad un altimetria incompatibile con i protocolli dell’azienda, il Domaine possiede anche otto ettari di Syrah, da cui trarre alcuni vini sull’appellation generica Cote du Rhone, St. Joseph e soprattutto nel lieu dit Maison Rouge in Cote Rotie, meno di un ettaro di vigne vecchie oltre 40 anni da cui viene ricavato un vino molto buono ma che ha bisogno di molta bottiglia per digerire il lungo passaggio in legno (22 mesi) anche se solo per il 20 % in barrique nuove ma secondo me si sente un po’ troppo in gioventù.
La produzione annuale dichiarata è di circa centomila bottiglie, che è già una quantità significativa per chi basa il proprio lavoro sulla ricerca di massima qualità. Infine , per chi questa estate si trovasse a passare in autostrada tra Lyon , Valence e Vienne consiglierei una tappa per degustare i vini direttamente sul posto. Il Domaine comunica infatti sulle principali guide la disponibilità a ricevere ospiti nei normali orari d’ufficio dal lunedì al venerdì.
Però, a quel punto, non si potrà fare a meno di salire anche sullo sperone roccioso dell’Hermitage o sulle colline roventi della Cote Rotie da cui ammirare la spettacolare sinuosità del Rodano.
A bientot GdF

Fa caldo, molto caldo, un po' di freschezza puo' darcela l'ultimo disco del grande Tom..

lunedì 12 luglio 2010

Philippe Pacalet



Gli armadilli sono ospitali e gli scritti del Guardiano del Faro, grande conoscitore di vini francesi, e gia' pubblicati sul wine blog di Luciano Pignataro), saranno qui riproposti, cominciamo con Pacalet nostra vecchia conoscenza..

Sarà stato sei o sette anni fa , ora non ricordo con precisione.
Ricordo invece precisamente i toni della piacevolissima telefonata intercorsa con Fabio Luglio, l’uomo delle Triple A della Velier di Genova, chiacchierando su prodotti che mi interessavano per allestire una carta vini per un ristorante. Si parlò inevitabilmente di Francia, che Fabio conosce metro quadro per metro quadro sia per quanto riguarda il mondo vinicolo che quello dell’alta gastronomia, fino al momento di imbarazzo totale in qui venni a trovarmi quando con la massima disinvoltura mi disse di avere a disposizione i vini di un nuovo produttore in Cote d’Or che lo avevano colpito come quasi mai gli era accaduto in passato.
La presi un po’ con le molle questa informazione, e anche con qualche diffidenza a dire il vero.
Il caso volle, però io non credo al caso ma piuttosto alla volontà di far accadere le cose, che a poche settimane di distanza da quella telefonata mi ritrovai con un amico a Nizza nel covo biodinamico che fa di nome La Part des Anges a decidere con quale bottiglia iniziare ad ammazzare la serata.
Quell’etichetta così strana in confronto a tutte le altre così classiche attirò l’attenzione immediatamente e il ricordo dell’informazione avuta tempo prima chiuse il cerchio.
E così stappammo insieme a Fabrizio la prima bottiglia di Philippe Pacalet, poi la seconda, poi la terza.
Rimanemmo felicemente sorpresi dalle caratteristiche dei suoi vini e quindi la questione non si chiuse certo quella sera. Perchè siccome nulla è andato nuovamente per caso, ecco che a breve distanza di mesi fu organizzata nel medesimo bar a vin una serata con Philippe Pacalet.

Seduto a fianco del produttore contai 68 stappi per 22 persone (donne e bambini inclusi) e mi persuasi che oltre a quello che diamo per scontato sia fondamentale avere tra le caratteristiche di un buon vino, anche la facile bevibilità e la digeribilità siano ugualmente importanti prima di proporre una bottiglia ad un pubblico semplice o evoluto.
Avendo deciso a cavallo del millennio di iniziare una produzione propria dopo fruttuosi anni passati a vinificare per il prestigioso Domaine Prieurè Roch (fondato nel 1988 dal nipote di Lalou Leroy), Philippe ha intrapreso una attività da negociant anomalo, privilegiando le parcelle dei diversi cru, meglio se “vecchie vigne” , seguite e coltivate durante l’anno secondo le sue indicazioni, le sue regole, i suoi protocolli.
In sostanza, arrivando all’acquisto di frutto sulla pianta appartenente a diversi proprietari che avessero garantito una qualità di frutto coerente alla sua filosofia, che tutto sommato molto integralista non è, non volendo neppure etichettarsi come biodinamico, ma accontentandosi a volte del termine biologico.
Prioritaria invece la volontà di difendere le diversità di ogni singolo terroir, preservando possibilmente i lieviti indigeni e quindi in fase di fermentazione evitando l’ utilizzazione di anidride solforosa che è per definizione antifermentativa e che quindi impedirebbe l’espressione ottimale delle caratteristiche del “terroir stesso. Poi un pochino, all’imbottigliamento (fatto a mano per ogni singola bottiglia) ce la mette per cautelarsi. Zucchero invece no. Lo zucchero è una spesa aggiuntiva che ha deciso di non sostenere.
Mano leggera anche sul versante affinamento, dove le pièces utilizzate sono per il 95% vecchie di cinque o più passaggi e quindi praticamente mai sentirete un vino di Pacalet che sa di legno, pur giovanissimo che sia.
L’espressione del vino non potrà dunque che essere vera , cristallina come l’espressione delle persone che non hanno nulla da nascondere.
Se volete sapere com’è stata l’annata in Borgogna stappate un rosso di Pacalet, un vino che non mente e non nasconde nulla.
Si, ma con tutte le denominazioni che copre e che continua a cambiare ogni anno quale scegliere?
In effetti questo è un dubbio che ha pochi motivi di esistere , potendo confidare sulla serietà e la coerenza per tutto il passato decennio.
Personalmente, a livello di cru village, che offrono la soddisfazione di una bella bevuta senza saccheggiare il portafogli, direi che su Gevrey Chambertin e su Chambolle Musigny non si sbaglia. Certo, volendo salire di grado e di blasone ci si può immolare contro un grand cru come Ruchottes Chambertin o sul nuovo arrivato (dal millesimo 2009) Chambertin Clos de Béze che però daranno delle belle soddisfazioni.
I miei millesimi preferiti da Philippe sono poi i millesimi buoni, perché quello che è stato te lo ritrovi nel bicchiere, e quindi 2001, 2002, 2005, 2006, 2009 .
Questo per i rossi. Sui bianchi sono meno entusiasta, perché a parte lo stratosferico Corton Charlemagne (2002 da paura, 2004 notevole e 2009 promettentissimo in arrivo la prossima primavera) il resto dei tentativi non mi sembrano degni del nome che Philippe si è costruito sul Pinot.
Meursault, St.Aubin, Puligny… mah! Perfino a Chablis è salito , ma con esiti alterni. Ma ne riparleremo più avanti, quando le 24 appellations e alcune delle 45.000 bottiglie previste per il nobile millesimo 2009 saranno disponibili anche in Italia. Per ora rimane l’ottima impressione destata dalla recente degustazione in cantina, a la pipette, dove ancora una volta la verità dell’annata è stata facilmente decifrata nel bicchiere.
Alla fine della storia si ritorna all’inizio della storia: ci si ritrova tra due amici e si decide di “esagerare senza esagerare” ? Bene, e allora saranno un paio di bottiglie di buona annata di Pinot di Philippe, da qualunque cru provengano, a sistemare l’umore ed alleggerire lo spirito per l’intera giornata e a garantire un buon sonno senza brutti sogni e poi qualcuno sentenzio':”togli I Led Zeppelin e metti i Creedence” ma questa è un'altra storia.