sabato 1 dicembre 2018

Monte-Carlo : Metropole Palace, alla ricerca della semplicità perduta.



- Silvia Vecchione -
- lifeonthetopfloor -



Un omaggio a Joël Robuchon

“Un’aria così, a ottobre, è aria di fuga”, pensavo. Mi trovavo al confine, a un passo dalla fuga, dalla sorpresa, dalla novità, dal fascinoso cocktail di memoria e ignoto che profuma di avventura e bellezza. Avevo già preso la via dell’ovest, in passato, ma a Monaco, stranamente, non mi ci ero mai fermata. La fantasia però a volte basta a fondere pensieri e creare ricordi, che in certi casi sembrano ancora più vividi della realtà stessa. Di Monte-Carlo mi viene sempre in mente – ancora oggi – la turbinosa descrizione del Casinò scritta da Pirandello nel Fu Mattia Pascal: un susseguirsi travolgente di parole che racconta di magia, eleganza, esaltazione e meraviglia e, insieme, di desolazione, nichilismo, solitudine e amarezza; poi, allo stesso modo, Monte-Carlo mi fa pensare a un parco giochi o al bel paese dei balocchi: “lasciate ogni speranza voi che entrate” perché qui il trucco per godersela è dimenticare; che le domande e le preoccupazioni, se proprio devono, sorgano da est perché se si decide di varcare il confine, qui e ora, in un ottobre di sole che è un’estate senza fine e uno spensierato invito alla frivolezza, si scelga l’ovest e tramontino i troppi pensieri, che è ora di far festa.



Giù dalla collina, verso il mare, in una spirale che attrae come una calamita, in un mulinello tentatore che trascina fino al cuore più profondo della movida monegasca, dove dominano il casinò e lo sfavillante complesso del Metropole, con le 80 lussuose boutique del Metropole Shopping Monte-Carlo e l’Hotel Metropole, tempio dell’ospitalità d’alta gamma e hub gastronomico d’eccellenza. Sì, l’eccellenza che probabilmente non ti aspetti da un parco giochi all’italiana ma qui siamo in un altro mondo, in una bolla che è un’altra realtà; anzi, siamo in un vortice di bollicine alla francese, in un esuberante pétiller dai bagliori dorati che non si ferma mai e che, con il suo gusto persistente, ti avvolge e ti chiede incessantemente di tornare, senza lasciare via di scampo. Qui al Metropole l’eccellenza gastronomica porta la firma di Joël Robuchon: qualcosa che dovevo, anche se ormai indirettamente, conoscere, per fissare nella mente parametri e standard di comparazione o, semplicemente, per incontrare l’autentica buona cucina così come la intende un vero maestro.


“La cucina è la semplicità e la cosa più difficile è la semplicità", diceva Robuchon. Difficile parlare di semplicità a Monte-Carlo, dove tra look talvolta eccessivi, fiumi di champagne e automobili che sembrano astronavi è facile cadere nell’ostentazione che è il contrario dell’eleganza. Però, nella cucina persiste, qui, il gusto francese, che nasce da una raffinatezza innata, da un’inclinazione naturale verso il bello, dalla volontà di ricercarlo sempre, applicandosi con dedizione, tecnica e rigore. Il culto dell’eccellenza pervade cucina e sala, declinandosi in un servizio attento, naturalmente ossequioso e mai esagerato, sempre puntuale, discreto, preciso e garbato.


Il savoir-faire francese e l’eredità di Robuchon incontrano il culto dell’elegante semplicità da Yoshi, una stella Michelin, nonché primo ristorante giapponese firmato dal grande maestro. Lo chef Takeo Yamazaki, accanto a Christophe Cussac, guida gli ospiti in un percorso sensoriale tra i profumi, i colori e i sapori della sua cultura, incantando occhi e palato con piatti curati nei minimi dettagli.



Il finto raviolo di chela di granchio in rapa bianca marinata è una composizione raffinata e leggera come una nuvola. La consistenza di velo quasi impalpabile lascia al ripieno la possibilità di sprigionare tutta la propria freschezza in un equilibrato susseguirsi di dolcezze e sapidità.



Il black cod arriva avvolto in una foglia di banano, che racchiude preziosamente l’aroma intenso della marinatura; la carne bianca e morbidissima del pesce si sfoglia rivelandone la cottura perfetta, mentre la persistenza della soia incontra la dolcezza di una glassatura dove si riconosce il tocco cremoso e francese del burro.


Burro e Robuchon chiamano purè e, per l’esattezza, quello più buono e più famoso al mondo. Siamo sempre al Metropole, ma al di là del giardino orientale, oltre le colonne bianche e il maestoso ingresso a porta circolare da grand hotel. Lecito sentirsi un po’ diva in tutta questa meraviglia; lecito e mai noioso il rito del people watching al Lobby Bar, dove la sfarzosità di tessuti, tappeti e pareti decorate è alleggerita e ravvivata dal continuo movimento in sala del personale e dei clienti.



Sottofondo di musica soft invaso dal chiacchiericcio di lingue e accenti tutti diversi, scintillio di calici e gioielli interrotto dal passaggio in giacca e cravatta di una frettolosa ventiquattrore e dal ticchettio prezioso di un orologio, che, qui, rinuncia a scandire il tempo, perché ci si potrebbe perdere per ore, a osservare, ascoltare, captare…calandosi in un’altra dimensione che non è né Italia né Francia, ma un polo d’attrazione incognito, ipnotico ed elettrizzante.
Il purè di patate, nella sua “difficile semplicità”, avvolge con una cremosità che non ha rivali, sbaragliando, ahimè, ogni standard. Sempre seguendo l’ormai affezionato mantra “toujours le beurre!” scegliamo di concludere il light lunch con una classica tarte au citron: un dessert ricco e bilanciato, intenso e burroso, che il palato continua ad accogliere con immenso piacere grazie alla note di acidità espresse dal limone e sottolineate dalla pungente decorazione a gocce rosse di lampone. L’alternanza di dolcezza e carattere che si risolve in una difficile sintesi dalla semplicità disarmante e dalla bellezza indimenticabile, per rendere omaggio a una storia senza fine.


S.V.

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