lunedì 30 agosto 2010

Nicolas Joly, l’uomo de La Coulèe de Serrant


Chissà quanto tempo rimane a Nicolas Joly per accudire le sue splendide vigne .
Il globe trotter più bio-dinamico del pianeta impegnatissimo a portare per il mondo il metodo e il pensiero di maggior tendenza degli ultimi venticinque anni ha fatto proseliti ovunque grazie a fascino e carisma, ma soprattutto dimostrando che i risultati della ricetta Steineriana applicata sull’appellation Savennières ha pochi eguali al mondo.
I terreni della denominazione Savennières tracciano una linea lunga una decina di chilometri lungo il corso della Loira in corrispondenza di due località ( La Possonière e Bouchemaine ) che devono la loro notorietà mondiale e il conseguente inserimento nell’agenda dei conoscitori dei grandi vini di questo pianeta grazie proprio alle etichette di Nicolas Joly.
Dei circa 350 ettari che delimitano la possibilità di coltivazione di chenin nell’appelation solo un terzo sono produttivi e la resa per ettaro è considerata tra le più scarse tra i vini bianchi francesi.
Le caratteristiche uniche della conformazione territoriale costituita essenzialmente da scisti prendono localmente diversi nomi a seconda della prevalenza di elemento acido o basico e la scarsa profondità di terreno che copre le rocce rendono particolarmente favorevoli le condizioni per la produzione di vini bianchi di alta qualità.
La cultura è la storia hanno indicato come unico cèpage compatibile con le condizioni terreno/clima della zona il vitigno chenin, in grado di produrre vini che genericamente si esprimono nel bicchiere su toni mielosi e floreali . La struttura, l’acidità, il frutto e un leggero ritorno amarognolo si combinano armoniosamente e sottolineano una classe e una complessità originalissima per un vino bianco della Loira.
Le due appelations di grande rilievo sono denominate Roche aux Moines e Coulèe ( vallone ) de Serrant e si evidenziano nel panorama della zona come speroni rocciosi protesi verso il fiume
Su questi terreni la biodinamica è stata applicata già dall’inizio degli anni ottanta e i risultati straordinari hanno contribuito alla diffusione della filosofia applicata un po’ ovunque nel panorama vinicolo. Oltre ai sette ettari della denominazione più nota , essendo considerato il vino de le Coulée de Serrant tra i più grandi di Francia , anche i tre ettari di Clos de la Bergerie, situati all’interno della denominazione Roche aux Moines hanno contribuito alla diffusione mondiale dei vini di Nicolas Joli, anche in funzione di un prezzo più che accettabile.
Ancora più economico l’altro Savennières tout court , che è commercializzato sotto l’etichetta Les Vieux Clos.
Si tratta nel complesso di una quindicina di ettari da cui si ricavano mediamente 45-50.000 bottiglie annue discretamente rintracciabili in prestigiose enoteche o ristoranti di fascia medio alta.
Tuttavia non ritengo opportuno bere le Coulèe de Serrant al ristorante.
Ciò perché questo è un vino non si apre agevolmente neanche a provocarlo con una frettolosa caraffatura. Ormai le esperienze plurime ci dicono e ci confermano che questo vino non ti consente di apprezzarlo a breve distanza dall’apertura. Genericamente moltissimi vini appena vengono stappati già fanno intuire quale sarà l’esito della bevuta. In questo caso il lungo periodo da dedicare all’ossigenazione sarà quanto mai opportuno e significativo, anzi direi indispensabile.
Leggendo sui sacri testi che questo è un vino da aprire e caraffare 24 ore prima del suo consumo potremmo pensare ad una forzatura, ad una enfatizzazione spropositata, invece qui non si scherza, qui veramente il vino continua ad evolversi, a sgranchirsi , a stiracchiarsi come un gatto pigro e per nulla voglioso di fare le fusa.
Ma un vero amante dei grandi vini, invece di abbandonare a se stessa la caraffa per una notte, dovrebbe attingere alla caraffa periodicamente, diciamo ogni ora, prelevando qualche centilitro di liquido e cercare di individuarne le diverse sfumature, le diverse sensazioni che si avvertono in progress. Alla fine della giornata si avrà un bloc notes pieno di appunti che sembrerà un diario di viaggio. Ed un vero viaggio sarà stato, attraversando giardini di fiori e frutti, cogliendo le profonde mineralità della roccia.
Questo è un vero vino da guardiano del faro.
Un vino lento, paziente, che ti chiede considerazione , calma e attenzione , da bere da solo, senza condizionamenti, senza premura, seduto per ore a fissare l’orizzonte dell’oceano dalle coste bretoni, un bicchiere ogni tanto, con il ritmo della luce del faro che gira, che torna, con uno sguardo periodico da rivolgere alle spalle, non per mancanza di fiducia, ma solo per ricordarsi da dove scende la Loria.
Tanti pensieri, tante cose in mente che scivolano via, dalla bottiglia al bicchiere, che a volte sembra mezzo vuoto, e a volte mezzo pieno.

Da degustare, un poco alla volta come i vini di Joly, l' ultimo cd del bravo Joe Purdy

lunedì 23 agosto 2010

Chateau Chalon, Jean Macle – Jura -


- Almeno sei anni e tre mesi. O come dicono i vecchi, 6 anni, 6 mesi, 6 giorni.

- Così tanto deve restare in botte il Vin Jaune de Chateau Chalon ? Diabolico !

- Certo, e senza rabbocchi. Nulla di diabolico, un 666 tutto naturale.

- Ma allora l’aria che occuperà lo spazio lasciato libero dal liquido ossiderà il vino ?

- Si, un pochino si, i barilotti sono un po’ porosi , non completamente ermetici e una considerevole parte , quasi il 40% del vino evapora nel corso degli anni (la cosiddetta “parte degli angeli “). Nessun riempimento viene fatto. Uno strato spesso del lievito di Flor, assomigliante ad una schiuma bianca si sviluppa sulla superficie del vino e ne impedisce l’eccessiva ossidazione, e così il vino assumerà una complessità e una distinzione unica !

Questo vino di tradizione ultra millenaria continua ad essere prodotto per il piacere dei più sofisticati enofili e dei goduriosi gourmet , così come per la gioia di alcuni sommi chef europei che ne hanno fatto uso per realizzare salse sontuose.

- Caspita ! Usare un vino così nobile e prezioso per farne una salsa ? Ma ne vale la pena ?

- Beh ! Chi ha mangiato all’Arpege Les Aiguillettes de homard aux vin jaune di Alain Passard lo potrebbe confermare.

La complessità e lo stile unico ha fatto storia , unico come il territorio protetto similmente ad una serra, unico come il vitigno da cui viene ricavato , le Savagnin , unico il formato originale della bottiglia bassa e tozza da 62 cl, il Clavelin . Flacone non ammesso all’imbottigliamento per nessun altro vino francese e mantenuto tradizionalmente in uso qui per ricordare l’inevitabile perdita di volume dell’originario litro di vino lungo i sei anni di affinamento.

Questo in senso generale, in dettaglio la proprietà storica di Jean Macle e del figlio Laurent, che ormai da tre lustri si occupa direttamente dei fatti di cantina, è considerata la più reputata su questa AOC del Jura , ma alcuni altri produttori possono vantare delle riuscite eccellenti sulle annate più favorevoli. L’importante è avere la stessa pazienza che hanno avuto i viticultori nel lasciare riposare sei o più anni in cantina il loro vino. L’acquirente del vino farà bene a rivolgersi ad un millesimo ben maturo per avere grandi soddisfazioni. Gli ultimi due che ho bevuto erano dei millesimi 1992 e 1982 . Il secondo era nettamente più complesso ed espressivo, e quindi niente paura, qui si può rischiare con una certa tranquillità sull’acquisto di vecchie bottiglie, le chances di passare una bella serata saranno altissime. Questo è un vino che sopporta bene anche una certa incuria, tanto lui un pochino ossidato lo è già, e quindi anche se qualche “caviste” superficiale non l’avrà conservato proprio come si deve lui sa come difendersi.

Le vigne di Jean Macle si trovano nel cuore della denominazione Chateau Chalon, su un ripido pendio di “marne bleu “ ricoperta di pietre di calcare, ai piedi di una parete rocciosa. La proprietà ha in dote una dozzina di ettari vitati, di cui solo il 30% è savagnin, il resto è tutto chardonnay, con il quale si produce un dignitoso Cote de Jura, ma ovviamente il grande interesse degli appassionati è quasi tutto orientato verso Chateau Chalon .

La rarità del prodotto è dovuta anche alla rigida legislazione che prevede che all’interno dei 50 ettari di Chateau Chalon il vin jaune possa fregiarsi anche della menzione comunale sono negli anni in cui tutte le condizioni previste siano state raggiunte.

Dal 1958 la commissione di controllo AOC passa attraverso le vigne qualche tempo prima della vendemmia ( tardiva ) per verificare se i grappoli d’uva abbiano o meno i requisiti perché il vino possa fregiarsi della denominazione comunale.

Non sto a farla lunga ma questa commissione è composta da una serie di organismi , istituti e associazioni il cui numero è per lo meno sorprendente. Come faranno a trovare un accordo ?

Il Jury AOC valuterà e deciderà se la tale annata è adeguata , e se si potrà stampare al collo del Clavelin anche il sigillo d’onore, se no il vino si chiamerà semplicemente Vin Jaune . E a dir la verità sarà spesso il Vin Jaune a stimolare la fantasia dei grandi chef per realizzare la salsa per una poularde aux morilles, da servire con un calice di Chateau Chalon, che a quel punto troverà uno dei suoi matrimoni d’amore.

Le caratteristiche di questo vino sono molto complesse. Il colore già annuncia che cosa si andrà ad affrontare. Il naso si arriccerà su se stesso , le narici si apriranno a tanta potenza abbigliata da toni esotici di curry e sensazioni nette di noci, si, più che mandorle noci . Proprio il sentore di noci è la firma sensoriale che darà il via al viaggio , dove l’ampiezza e il volume satureranno il cavo orale. La sensazione di pulizia è totale, quasi come affrontando uno sherry secco .

Bisognerà provvedere anticipatamente ad acquistare un paio di tranci di Comté con diverse stagionature per creare l’abbinamento più classico e più semplice possibile che si possa fare con questo vino.

Sono quegli abbinamenti dove non c’è nulla da inventare, sono quelli spontanei, quelli che si rincorrono istintivamente su tutti gli elementi che concorrono a creare il circuito virtuoso della magica miscela chimica che chiude un cerchio sensoriale, che continua a girare intorno al vino, il formaggio, due gherigli di noci fresche e un pane all’uva.

E Chateau Chalon che gira, che gira, che gira nel bicchiere…

Voilà, c’est tout . Pas belle la vie ? :-)

gdf

UNO CHE INVECE NON SI OSSIDA MAI:

venerdì 20 agosto 2010

Clos de Tart a Morey St Denis, il mito































E' con soggezione e circospezione che mi accingo a parlare di uno dei più classici e mitici vini di Francia. Quasi in punta di piedi, perché qui a Morey St. Denis, in piena Cote de Nuits, il blasone e la storia di Clos de Tart non sono secondi a nessun Chateau o Domaine dell’esagono.

Pare contraddittorio quindi venire a conoscenza del fatto che prima della legislazione delle denominazioni d’origine del 1936 i vini bianchi e rossi del comune di Morey fossero sovente commercializzati sotto le denominazioni circostanti più note al pubblico dell’epoca, e cioè Gevrey Chambertin e Chambolle Musigny. Ancor più stupefacente che ciò accadesse all’interno del comune dove oggi la quantità di Clos e di Grand Cru non sono secondi ad alcun altro comune della Cote de Nuits. Sono infatti ben cinque i grand cru di Morey St.Denis:

Clos de La Roche, Clos Saint Denis, Clos des Lambrays, Bonnes Mares e appunto, Clos de Tart.

Una sequenza che semplicemente rileggendola farebbe accapponare la pelle ad ogni appassionato di Borgogna.

Clos de Tart, contrariamente a quasi tutti i grand cru di Borgogna è un Monopole, cioè l’intero vigneto situato all’interno dei caratteristici muretti di pietra appartiene totalmente al medesimo proprietario, la famiglia Mommessin, quelli del Beaujolais . L’esatto opposto, per esempio, del famosissimo grand cru che fa di nome Clos de Vougeot, dove i circa cinquanta ettari interni ai muretti del Clos sono sbriciolati in circa ottanta parcelle appartenenti a diversi proprietari.

Questo è un altro dei tipici rompicapo borgognoni che allontanano da questi vini gli appassionati meno cocciuti e giustamente avviliti da brutte esperienze , perché se stasera decidete di permettervi un Clos de Vougeot senza aver identificato con criterio un produttore degno di fiducia avrete molte possibilità di versarvi nel bicchiere una solenne ciofeca, mentre se decidete di permettervi un Clos de Tart, se non sbagliate la scelta dell’annata avrete certamente nel bicchiere uno dei più sontuosi vini di Borgogna.

Questo per diversi motivi, primo fra tutti la possibilità di scelta dal volume di frutto raccolto nelle diverse parti del Clos, che occupa la discreta superficie di sette ettari e mezzo e consente una produzione media di 25000 bottiglie annue. Con il resto della produzione non ritenuta idonea a reggere il rango di grand cru si farà un secondo vino senza troppe pretese, la Forge .

Questo grand cru possiede un paesaggio interno con rilievi diversi rispetto al vicino di muro, il Clos de Lambrays, avendo al suo interno delle parcelle dove affiorano rocce differenti sui diversi versanti ed è attraversato da una vena calcarea comune anche al medesimo Lambrays ed al mitico Bonnes Mares. Un’altra particolarità è l’allineamento di filari disposti invece che nel senso del pendio, nel senso perpendicolare ad esso, accorgimento raro in Borgogna, ma utile per limitare l’erosione della superficie della terra e a quanto pare anche per raggiungere una maturità ideale di frutto nelle annate troppo calde e dove si rischierebbe di vendemmiare una confettura. Cosa per altro avvenuta nel folle 2003 , il cui vino sembrava un Cote Rotie e il tenore alcolico aveva sfondato quota 16 ° .

Il buon Sylvain Pitiot in tutti gli anni che ha passato al Clos quale regisseur del Domaine ha sommato un’esperienza che gli ha consentito di conoscere pietra per pietra il suo terreno , conversando singolarmente con ogni piede di vigna e ottenendo da loro il massimo, e cioè i più grandi vini usciti sotto l’etichetta Clos de Tart.

Si usa generalmente associare il bouquet di Clos de Tart a quello dei suoi illustri vicini, ma volendolo identificare singolarmente io credo che questo sia possibile individuandone, nelle annate classiche, i sentori di fiori rossi, di frutti neri e rossi con la sensazione finale tartufata che controfirma la nobiltà del terroir.

Le ultime annate sono tutte diverse ma tutte molto interessanti per le diversità espresse dalla natura e rispettate in vinificazione. Anche qui, come spesso in tutti i rossi della Cote de Nuits, le annate problematiche sono per motivi opposti motivi la 2003 e la 2004, mentre il filotto successivo lo vorrei avere davanti per uno stappo selvaggio e senza ritegno. Probabilmente all’apice della forma anche la 2000 e la 2001, mentre la 1999 dovrebbe avere ancora molto da dire in prospettiva e quindi sarà meglio lasciarla coricata.

Tra le più vecchie annate bevute negli ultimi anni c’è stata una gradevolissima bottiglia di 1983, integra e gentilmente evoluta, abbinata con un fagiano in sfoglia tartufata. Tartufo nel piatto e tartufo nel bicchiere , bien fait!

Ma l’annata da sogno rimane però la 1996, che ho bevuto qualche mese fa con niente e che al primo impatto con il naso mi ha emozionato così violentemente da farmi esclamare: 100 !

gdf

mito con mito...


martedì 17 agosto 2010

Cabernet Franc d’autore, Clos Rougeard


















La pendule des Foucault cadence le temps d’une autre epoque. Celle où le rythme du vin n’était pas toujours celui du marché .

No, la citazione non allude al pendolo di Foucault, lo strumento appeso in una grande sala all’interno del Museo delle Arti e Mestieri , nel Marais, a Parigi . E non saranno i colpi di scena mirabilmente narrati da Umberto Eco quelli cercati dalla famiglia Foucault. Da loro il tempo passa lentamente e diventa uno strumento fondamentale per la maturazione e per l’ampliamento di ogni singola espressione, di ogni singola sfaccettatura che possa presentare il miglior Cabernet Franc in purezza che io conosca. Oggi, lontani dai templi del Marais, i guardiani del tempio dedicato al cabernet franc di Saumur- Champigny custodiscono le loro preziose bottiglie per lungo tempo prima di consentirgli di rivedere la luce del sole.
Si sa quando le bottiglie entrano, ma non quando usciranno.

Clos Rougeard è il Domaine che più di altri ha portato a livelli nobilissimi il vitigno che altrove, nel bordolese in particolare, è impiegato marginalmente e funge da contorno, da completamento all’uvaggio classico del sud atlantico dove però saranno i cugini più famosi ( merlot e cabernet sauvignon ) a recitare le parti di prime donne.

Qui, nel nord Atlantico, a qualche decina di chilometri da Nantes, all’interno delle zone a denominazione Anjou e Saumur si trovano una vasta gamma di terreni e di microclimi diversi che consentono a questa regione di produrre un po’ tutti i tipi di vini : bianchi fermi e tranquilli, secchi o morbidi, moelleux o liquorosi, effervescenti, rossi fruttati da bere rapidamente, rosati secchi o dolci , petillant… ed infine anche qualche grande rosso adatto ai lunghi invecchiamenti.

E’ appunto il caso del cabernet franc di provenienza bordolese, qui chiamato anche Breton, perché pare sia arrivato qui via mare, da Nantes, a suo tempo provincia bretone. Come dicevo, qui il clima è capriccioso assai, così vicino alle coste atlantiche dove la variabilità giornaliera è incredibile. Provare a mettersi in spiaggia in estate a La Baule per capire cosa intendo. La fuga e il ritorno in spiaggia dei bagnanti ad ogni cambio violento di situazione può essere diventata routine per i turisti parigini più temprati, ma per noi mediterranei, abituati ad andare al mare in tarda mattinata e rimanerci in santa pace tutto il giorno, questi repentini scrosci di acqua gelata intervallata a squarci di sole accecante diventano un incubo stressante.

In queste condizioni è ovvio che le annate buone per far del vino eccellente da queste parti non sono moltissime

Quando però le annate lo consentono, i fratelli Foucault etichettano singolarmente i due cru : Poyeux , 3 ettari di terreno silicio calcareo, i cui vini ricavati negli anni trenta hanno fatto storia, e pare siano tuttora ancora in discrete condizioni.
La seconda etichetta deriva dal singolo ettaro di Clos du Bourg, dove sarà il terreno argillo calcareo e l’età delle vigne ( più di 75 anni ) a consentire al vino di raggiungere valutazioni sensoriali sempre vicine al massimo . Il Domaine possiede anche un ettaro di Chenin con cui viene prodotto il Saumur Brézé , assoluto riferimento della denominazione, e non solo.
Ma sono i rossi ad emozionare maggiormente per le sensazioni autenticamente minerali e profonde che si aggrappano alle papille strapazzandole senza sosta, mentre invece la trama tannica sarà finissima e delicata, come lo è il colore, lontanissimo dalle forzature dei cugini del Medoc. Non troppo evidente il varietale, strumento di congiunzione tra terra e cielo, collettore di linfa tra le profondità della terra e i capricci del clima atlantico.

Una bella emozione potrebbe derivare dall’assaggio di un Clos du Bourg 2005, dal naso vertiginoso e dalla marcata mineralità che diventa quasi assillante. Secondo gli specialisti della zona, questo è il riferimento massimo, l’apice raggiungibile raramente per un vino rosso prodotto in Loira.
Insieme,a tavola, proporrei qualche costoletta d’agnello dei prati salati di Bretagna e Normandia, nient’altro , puro minimalismo gourmet.

Questi vini hanno una vita propria, sobria ma autorevole. Sembra che respirino, che si muovano autonomamente dimostrandosi a volte gentili ed amichevoli in gioventù, diventando vecchi ma saggi con l’età, epoca nella quale si potrà ascoltare il bicchiere narrare di storie antiche, attraversando tutti i decenni appena trascorsi ma come se fosse l’altro giorno, un tempo cadenzato diversamente dal vecchio pendolo di Foucault, trovando a volte un punto in comune nelle emozioni di confortevole solitudine, come calandosi nelle atmosfere misteriose dei saloni del Museo delle Arti e Mestieri del Marais .

gdf


giocoforza abbinarci Jeffrey Foucault ;-)


sabato 14 agosto 2010

Pietre Colorate

Dopo Porthos, arriva PIETRE COLORATE.
Trimestrale indipendente che ispira fiducia solo a guardarlo, dalla carta, dalla forma, dai colori, dalle foto, dalle parole. Leggendolo non è possibile non restarne affascinati e appagati da tanta semplicità espressa con profonda e intensa sensibilità d'animo.
Parla di vino ma non solo, parla di terra ma non solo, parla di persone ma non solo, parla di cultura, ambiente, luoghi, storie, racconti, parla di ciò di cui vorreste sentir parlare.
Tra i vari articoli, come tessere di un mosaico, trovano il giusto spazio le poesie, bella la scelta di stampa calligrafica, altro segnale di un ritorno alle origini, il pennino che fatica a scorrere sulla carta ruvida traccia solchi di memoria così come l’ aratro che prepara il terreno per una nuova semina.
Bella come idea regalo, anche senza aspettare il Natale..

ps la signorina dietro la copertina non è compresa nell'abbonamento ;-)


Da ascoltare leggendo Pietre Colorate lo splendido (e ahimè costoso) cofanetto di John Mellencamp "The Rural Route 7609"
Che il Little Bastard stesse vivendo una stagione di incredibile maturazione e saggezza ce ne eravamo resi conto dall'ascolto delle sue più recenti opere, cominciando proprio dall'apice toccato con Life Death Love and Freedom ma qui sembra raggiungere la sintesi di queste sue aspirazioni, poichè asciuga ogni orpello come ad enfatizzare il senso più profondo delle liriche...

mercoledì 11 agosto 2010

Biodinamica spietata alla Fattoria de La Sansonnière



Biodinamica spietata in Loira , la Loira, dove la percentuale e la concentrazione di vignerons biodinamici per metro quadro è la più alta d’Europa.

- Olivier Buongiorno, ti è arrivato forse qualche biodinamico estremo che stasera volevo farmi venire male allo stomaco?
- Bonjour Robertò, ça va ? Qualche cosa di biò extremò ? Oui , qualche cosa è arrivata. Aspetta che te lo vado a prandere nel frigorifero.
- Perché in frigorifero ? Ti va a male se lo lasci sullo scaffale?
- Oui, dans ce vin pas des sulfites, guarda che cosa ha scritto sulla etichetta.
- Vin sans sulfites, conserver en dessous de 14° ? …
- Oui, mettilo nel frigorifero quando vai a casa .

Mark Angeli è chiaramente un tipo molto originale. Tanto per cominciare non si etichetta neppure come vigneron, lui si limita a definirsi Paysan à La Sansonniere, un contadino insomma, e le immagini che scorrono on web direi che confermano pienamente la coerenza talebana con le proprie convinzioni.
Convinzioni che si manifestano senza compromessi nel bicchiere. Questo è un personaggio da prendere tutto intero, per quel che è, e di conseguenza i suoi vini, che non è difficile intuire siano caratterialmente uguali al contadino con cui sono nati e cresciuti, e andrebbero quindi accettati e capiti per quello che sono.

L’aneddotica sul personaggio sarebbe ricchissima su temi come “Le soufre” , i solfiti, o sugli innesti che farebbero germogliare la vite dimenticandosi di far maturare il frutto . O il cavallo in vigna preferito al trattore, più leggero e affidabile..

La bottiglia a cui faccio riferimento nell’introduzione rimane però per me unica e particolare.
Forse perché fu la prima cosa che bevvi di questo produttore, sarà stato l’entusiasmo, sarà che avevo voglia di una cosa così, fatto sta che un vino così buono sotto l’etichetta de La Sansonniere non l’ho più bevuto.

Si tratta dell’Anjou Vignes Françaises en Foule annata 2001.
Quindi, se ho ben inteso si tratta di vigne a piede franco con densità di 40.000 piedi per ettaro.
Nonostante non abbia mai più visto da nessuna parte questa bottiglia e quindi non l’abbia mai più bevuta, il ricordo rimane piuttosto limpido, sicuramente più limpido dell’aspetto del vino, dove non ti stupiresti di trovarci dentro ancora un grappolo intero di chenin da pigiare.

Il frutto maturo, la mineralità integra data dal piede franco, lo spessore in bocca, l’acidità equilibrata, la gourmandise, la golosità estrema insita nel vino che invitava ad un continuo rabbocco del bicchiere fino alla fine, conservando una dolce persistenza che ti mette in pace con il mondo. Questa è biodinamica, questa è anche omeopatia cerebrale.

In seguito l’irregolarità riscontrata negli altri vini dell’ex studente di chimica tornato alle origini della vita delle piante non mi ha stupito, come accetteresti gli eccessi di carattere di un amico, così bisognerebbe prendere qualche passaggio a vuoto di un contadino che trasmette la sua sensibilità all’interno di un bicchiere. Proteggendo poco o nulla i suoi vini con il maledetto “soufre” per mantenerne il più possibile intatti i tratti originali e significativi, rischiando ovviamente di deviarne gli aromi, che a volta proprio nobili non saranno.

La Sansonniere dispone di cinque ettari di vigneti tra chenin, grolleau gris e cabernet franc.
Il vino più rintracciabile è La Lune, quasi mai all’altezza della fama del produttore , con deviazioni aromatiche che a volte allontanerebbero uno sciacallo, mentre gli altri, Les Fourchades e le Vielles Vignes en Blanderies nonostante la variabilità infinita di sfumature, tutto sommato rientrano in canoni che coniugano il varietale con la filosofia dell’uomo.
Per gli altri rimando alle precise schede tecniche dell’importatore : Velier

Due parole su un rosè, un curioso rosè beverino e simpatico da cabernet franc e grolleau che parrebbe raccolto con le uve surmature e si propone come una specie di succo di frutta all’aroma di melograno. Veramente curioso perché distrae totalmente la mente dai parametri più o meno classici che abbiamo in mente sul tema rosè.

In conclusione sapendo a cosa si va incontro gli spunti di commento qui non mancheranno mai , dallo stappo alla fine della bottiglia, magari combattendo con l’ovarius, l’originale e scomodo decanter che accelererà l’ossigenazione del vino, sia quando le puzzette sembreranno eccessive, o quando il vino si presenterà al meglio e sarà un piacere berlo con serenità, sapendo che sarà onesto oltre che il nostro palato anche con il nostro cervello e il nostro stomaco.

Però se non è buono no, se non è buono ma è sano e naturale non mi sta bene.
E’ pieno il mondo di roba sana e naturale che non è buona.
Non rifugiamoci tra le gonne della moda o dell’integralismo per giustificare il cattivo gusto.
gdf

naturale e "buonissimo" è pure sto Tom Petty che ha allietato la nostra estate con un disco splendido

lunedì 9 agosto 2010

Tinto de Verano

Tinto de verano ossia rosso d'estate. Gli spagnoli non hanno bisogno di molto per divertirsi.

Prendono la peggior qualita' di vino possibile lo mischiano con gazzosa,un po' di ghiaccio e via il dado e' tratto. Ci sono le varianti con la limonata o per i palati sopraffini con la coca cola.
Per spendere ancora meno, ci si incontra in qualche piazza, si porta tutto l'occorrente da casa, preferibilmente in quantita' eccessive e si fa mattina. Son figgieu.
Poi vieni a scoprire che anche ai piu' grandi (all'anagrafe), dottori o musicisti che siano, piacciono gli intrugli, vedi qui e qui, e un noto ex calciatore del Genoa andava a coca cola e cappuccino.



Gli armadilli, a cui piace darsi un tono, piu' banali e poco dispari, vanno piu' sul classico.
Ma comunque non rinunciano anche d'estate a bere vini rossi.

Io ad esempio mi butto sul Varej di Hillberg-Pasquero, brachetto(secco!) con un 'aggiunta di barbera da bersi freschetto: una goduria. E rimanendo in Italia, il Rosso Piceno di Aurora va bene in ogni stagione, beverino e un tot rustico. Passando in oltralpe penso ai pinot nero meno considerati tipo Loira (Puzelat tra gli altri) o Alsazia (il bravo Bruno Schueller).

Il buon Tatix si tracanna con piacere il Morgon Cote de Py di Jean Foillard, uno dei migliori
Gamay in circolazione, e il Poulsard di Pierre Overnoy che c'azzecca quasi con tutto.

Il Ciciuxs dal settimo piano a Milano (mai alto abbastanza) segnala, tra gli altri:
Lambrusco di Camillo Donati (bello fresco), Morgon Lapierre, Anjou rouge di Mosse (uela un cabernet..), Cuvee rouge di Chateau Musar, Frappato di Arianna Occhipinti (fresco), 
Freisa di Burlotto, Rosso piu' de Le Coste e il Serragghia rosso di Giotto Bini.


Buone vacanze a todos
Hazel
La mia canzone de verano.

venerdì 6 agosto 2010

Una festa per Il Guardiano del Faro alla Trattoria Zappatori





















Pinerolo, 4 Agosto 2010
Le cose migliori di questa vita non sono ripetibili.
L’incerto, la sorpresa, l’improvvisazione che poi si rivela invece studiata trama e sceneggiatura curata da menti contorte quanto geniali.

La collocazione così inaspettata è già di per se stessa sorprendente nel senso più bello del termine.

L’accoglienza del padrone di casa, la sua famiglia, il suo locale, nel centro di Pinerolo ma gradevolmente defilato, così ricco di carattere, di personalità e convinzione come il giovane chef che orchestra sinfonie senza stecche, pur prendendosi spesso il rischio di sfiorarle. Ma prima di tutto il dovuto omaggio all’assente giustificatissimo e cui tutti i partecipanti devono un ossequio per lo stile e la classe che non da oggi manifesta in ogni suo atteggiamento, mediatico o realistico che sia.
Caro Breg, GRAZIE! Tutte le bottiglie ( più di venti per otto persone) erano state stagnolate e rese il più possibile anonime. Il gioco è stato bello per un po’ ma poi si sa come va a finire, alla lunga nessuno ha più voglia di dire sciocchezze, io per primo. Ma la tua l’ho presa, l’unica, alla cieca. Non l’annata, però il vino si, e che vino, il vino che ha vinto la giornata.
Grazie per il tuo regalo, che ti ha reso presente nell’aria, attraverso le vene balsamiche corredate di infinite sfaccettature di questo straordinario Domaine de Chevalier 1982 . Mondiale!
In finale ha duellato con una compilation di corazzieri scesi dalla divina collina con aria spavalda ma costretti loro malgrado ai margini della scena. E poi gli amici che arrivano a pensare ad un maglietta personalizzata gdf con tanto di faro bretone. E tutti gli altri a farsi centinaia di chilometri, per esserci e per condividere l’amicizia, le eccellenti bottiglie e una cucina oltre le aspettative, in questo caso frutto di alterni pettegolezzi , dove come sempre c’è del vero ma in questo caso soprattutto superficialità per incapacità di capire, di approfondire . Una cucina che merita approfondimento, una cucina che ci ha gratificato e piacevolmente stupito, perché questo ragazzo ha grinta e volontà da vendere, ha voglia di gridare al mondo gastronomico che anche lui ha diritto a un posto di rilievo. Lui ci tiene, e se ne è veramente convinto lo otterrà.

Ma fosse anche solo questo lo “Zappatori”, ci sarebbero un centinaio di stellati in Italia che a questo non arrivano. Intanto ci ha gratificato e onorato con due fette di salame da commozione, perché l’artigiano che lo preparava non c’è più e si è pure portato via per sempre il segreto della speziatura che ha reso un porcello un divin porcello. La girella di barbabietole fa invece tenerezza, forse un ricordo dolce di un pomeriggio a giocare nel cortile davanti la Trattoria. Esibizione di un lato materico attraverso la proposta dei crudi di carne tradizionali e l’attaccamento alla sua terra, lenta e costante come il movimento delle lumache.

Accidenti che lingua! E che salsa signori. Chi ha radici piemontesi sa che cos’è un antipasto di verdure , con o senza tonno, come si prepara nel torinese, dove è la dolcezza e l’acidità del pomodoro e il profumo del peperone estivo a dare un tono unico a quello che ci metti intorno, e se intorno c’è una magnifica lingua (superiore anche a quella di altri giovani leoni dei fornelli) come questa, di una bontà unica, allora diciamolo chiaro, questo piatto vale il viaggio.

Poi ironizza il nostro caro Christian, facendo arrabbiare chi non ha dimestichezza con i plin o agnolottini di carne ficcati dentro il bicchiere per far vedere come sono belli. Perfetti e buonissimi. Da vedere e da mangiare. Il risotto sembrava inutilmente complicato ed invece era un gran risotto rivelatorio di un talento chiaro, cristallino. Christian, non so da dove e come ti è uscito questo abbinamento daikon – caffè – cacao – miele di castagno , ma in ogni caso mettilo via nel cassetto delle cose preziose di questa vita.
Non so quante coppe e premi avrai vinto correndo in bici, ma questo potrebbe anche valere di più di un passaggio in testa su un colle hors categorie del Tour de France dei risotti.

Il polmone ha diviso il mondo in due, un passaggio provocatorio che viene concesso e perdonato o addirittura esaltato quando si tratta di chef da sostenere a prescindere , mentre per altri la categoria prevista sarà quella degli chef incompresi. Qui qualcuno si è arreso e qualcuno ha fatto il bis. Bene così allora, sono i piatti che tornano in cucina intatti, lasciati da tutti, questi sono i veri flop.
Questo invece ha margine, si, si può fare anche con il polmone. Un passaggio sull’aia con tecnica e cultura, sensibilità e purezza di stile, perché la gallina è morbidissima e le sue granaglie deliziose. La pelle che spesso molti lasciano qui diventa leccorniosa prendendo sembianze di piccola pasticceria, come fosse una tegola di burro e zucchero, invece è pelle di pollo. Ci fosse stato anche un fondo importante di volatile avrei potuto fare paragoni ingombranti, e se deciderai di aggiungerlo, lascialo in un bricchetto o versalo con la grazia di Franck Cerutti , a salsare con discrezione solo l’elemento principale lasciando pulito il sapore dei cereali. Per due impuniti c’è spazio anche per un’impeccabile filetto di manzo, esemplare per qualità di materia e cottura, ma anche qui c’è spazio di lavoro sul tema salsa, mal comune mezzo gaudio in Italia. Il finale dolce non è per nulla banale e ci sposta dall’adorata anice alla sensazione lattica, al confortante cioccolato, alla rinfrescante menta, per riportarci con i piedi per terra nel territorio con una nocciolata in diverse consistenza, con le quali giocare a piacimento fino alla saturazione di quel frutto. Appunto, fino al 100%. Come la giornata, vissuta al 100% .

GdF

” COSA IMPORTA SE E’ FINITA E COSA IMPORTA SE HO LA GOLA BRUCIATA O NO, CIO’ CHE CONTA E’ CHE SIA STATA UNA SPLENDIDA GIORNATA…”