Per la maggior parte degli anni ’80 ho frequentato le scuole elementari
e ieri sera, prima di assaggiare questo mostro sacro, mi è scappato un sorriso,
pensando ai succhi di frutta in bottiglietta che costituivano la metà della mia
merenda delle 10.
Tecnicamente anche il vino è un succo di frutta; se è vero che l’educazione
si impara da piccoli, mi chiedo per quale motivo a 8-9 anni ti rifilino succo
d’arancia anziché succo d’uva…
L’incredibile esperienza si consuma a Cervo (IM), Ristorante San Giorgio,
regno della Signora Caterina Lanteri, un concentrato di grazia e simpatia, dove
la competenza e la passione del figlio Alessandro ci regalano questa probabilmente
irripetibile gioia.
Di ritorno dal Salon des Vignerons Indépendents
di Mandelieu-La Napoule, ormai parliamo francese e seguiamo la regola
squisitamente transalpina di aprire per prima la bottiglia più attesa, che è un
po’ come calare l’asso di briscola alla prima mano.
Il seme di briscola è il riesling e l’asso è Domaine Trimbach, Clos Sainte Hune Vendages Tardives annata 1989.
Serve ripeterlo, per paura che non sia vero: le bottiglie circolanti in
Europa di siffatto nettare si contano sulle dita di una mano.
L’Alsazia è quella terra di confine tra Francia e Germania, lungamente
contesa, dove i nomi e le lingue si confondono. Nei ricordi scolastici l’Alsazia forma una
coppia indissolubile con la vicina Lorena, un po’ come Coppi & Bartali e Stanlio
& Ollio, per capirci.
Dal punto di vista enologico, invece, l’Alsazia è una regione assolutamente
autonoma e con un carattere ben definito e ben identificabile.
Il Clos Sainte Hune proviene dal Grand Cru Rosacker, nel villaggio di Hunawihr
(ecco il miscuglio di lingue!) e mentre visualizzo le immagini di fiabeschi paesini
alsaziani, arriva il solenne momento del bicchiere.
Cala il silenzio, quello che va osservato per esprimere rispetto o, più
prosaicamente, quando non si trovano le parole. E questo è uno di quei momenti.
Abito giallo dorato caldo, luminosissimo e denso.
Al naso esplode potente la nota idrocarburica, cifra distintiva del
riesling, come un cavallo di razza purissima, che scalpita dopo quasi 30 anni
di “clausura in vitro”.
Ma subito dopo il cavallo viene domato da dolce frutta tropicale, stuzzicanti
note di anice e poi miele, anzi di cera d’api, ravvivato da un accenno di
scorza di agrume, in una girandola che stordisce e che ti fa quasi temere di
assaggiarlo, come a non voler interrompere questo idillio sensoriale.
Coraggio, assaggia. E innamorati di
nuovo, di questa morbida avvolgenza che si srotola per tutta la bocca come
fosse un tappeto di velluto, ma che trova ideale sostegno in una straordinaria
acidità, che è DNA del riesling e che fa rima con longevità.
Se dovessi osare riassumere in una parola questa esperienza ai limiti del
mistico, sceglierei “vivacità”, perché non vi è nulla di stanco o di molle in
questo ragazzino di 30 anni!
L’ottima capasanta con foie gras tenta
di reggere l’urto ma, come direbbero i ragazzini di oggi, “può accompagnare
solo”.
Perché questo è un vino assoluto, bastevole a se stesso, che va annusato e
assaporato lentamente, per assorbire la magistrale lezione: ecco cosa è IL
riesling e come si dà concretezza al concetto di persistenza e di vini che
arrivano in fondo alla bocca.
Purtroppo si arriva anche al fondo della bottiglia, ma l’appagamento che
deriva da questo assaggio è totale e corrisponde pienamente all’appagamento
dell’animo.
Cosa resterà di questi anni ’80? Non lo so, di sicuro a me di questa serata
resterà in memoria il “gusto” del riesling: mentre scrivo mi sembra ancora di
masticarlo e penso che forse un po’ di ragione Jonathan Swift l’aveva, quando
sosteneva che “Il vino dovrebbe essere mangiato: è troppo buono per essere solo
bevuto”.
Chiara
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