- un pesce fuor d'acqua -
A Rivalta Bormida in quel Palazzo Bruni che il Guardiano del
Faro ha introdotto qua (http://armadillobar.blogspot.it/2017/11/mirepua.html)
il ristorante Mirepuà ha compiuto otto mesi. Quel nome, che in gergo culinario
francofono (mirepoix) è la dadolata,
spesso essenziale, omogenea e multifunzionale (generalmente di cipolle, carote
e sedano), italianizzato in Mirepuà non è solo una trovata divertente per il
nome di un ristorante. È la parola chiave, una chiave d’accesso a quello che
non è solo un buon e bel ristorante imbattibile nel rapporto qualità-prezzo, ma
è un progetto di cibo, amore e vita (in cui cambiando l’ordine degli aggettivi
il risultato non cambia e questo è presagio di solidità).
À la cuisine italienne,
il mirepuà, è
il soffritto, quella cosa semplice e basilare (fondamentale): l’incipit,
l’acceleratore e il calibratore dei sapori di un piatto. Il Mirepuà, ora, è
come un soffritto: la base per il progetto in divenire e da definire di
Federico e Gaia, già solida, decisa e netta (come i pezzettini di verdure a la mirepoix). Ora è a cottura controllata,
si aggiunge piano piano dei sapori di cui necessita, ma si bruciacchia
disomogena in alcuni punti ogni tanto, per fortuna. Perché gli errori nelle
mani giuste sono manna dal cielo per la costruzione di qualcosa di sensato e
sorprendente.
Torniamo al mesiversario del ristorante a Palazzo Bruni:
otto mesi di lavoro meno prima e ora più intenso e di rodaggio attento. Il food lab sta procedendo per la sua
stradaa passo giusto, non troppo veloce ma neppure lento e non in sordina (i
buongustai hanno già incominciato a deviare dalla Gravellona-Toce in direzione
Rivalta Bormida). “Passo giusto”perché quando la voglia e le idee ci sono ci
vuole un attimo a farle uscire tutte facendo il botto (nella bivalenza del
termine), ma non è questo il caso. Federico e Gaia, i giovanissimi chef e
maitre di sala, nonché proprietari e ideatori e ancora prima innamorati, sanno
il caso loro e sanno calibrare la loro bilancia per non creare disequilibri.
n.b. è food lab e non solo ristorante, ma non perché il
Palazzo Bruni è o vuole diventare un luogo di veri esperimenti o di follie
culinarie. Food lab innanzitutto è un
nome figo, giovane, che fa incupire le sopracciglia mentre ti
chiedi “che fanno qua dentro”e già si distacca dai canoni tradizionali di
tradizione della zona (J).
Poi food lab è apertura a tutto:
all’essere ristorante in primis, ma avere in vendita ed esposizione prodotti
gastronomici all’ingresso, ad avere tante sale a disposizione per tante
accezioni di ristorante e tante declinazioni (vedi incontri con produttori) e ad
avere, in un futuro prossimo, la possibilità di diventare il punto nevralgico
della valutazione e promozione sensata e cucinata di un territorio, l’Alessandrino.
Piccolo passo alle origini per capire l’avvenire:Federico è
genovese di nascita e Gaia è mezza genovese e piemontese. Ecco che ora capire
perché la loro storia doveva partire da Rivalta Bormida e non dalla Riviera
Ligure è più facile (mettici poi un gran locale a prezzo da non lasciarsi
scappare e un sindaco buono e buongustaio e il cerchio è chiuso). La campagna
dell’Alessandrino che li circonda ha un foodscape
di prodotti Eno e Gastronomici, e un panorama collinare da osservare lungo le
strade strette e curvilinee che portano al locale, che non ha nulla da
invidiare alle Vip Lounge del cibo e del vino piemontesi (Langhe e presto il
Roero).
Qui nei paraggi dicono che la tradizione rustica, quella da mangiate di panza e sostanza tipiche di questi luoghi e di altri tempi, abbondi di luoghi di culto non difficili da scovare. Federico e Gaia, veramente giovanissimi, non si sentono di rientrare in quel riquadro locale e con pochi anni alle spalle e tanti davanti agli occhi,hanno deciso di cucinarla a modo loro quella tradizione. Spieghiamo meglio per non inserirli nella banale reinterpretazione della cucina italiana regionale. Federico e Gaia non osano reinventare, nemmeno ammorbidire, forse si alleggerire qualcosa (deo gratias!): cercano i prodotti migliori per far emergere il territorio circostante nei piatti, incrociandolo però con i territori limitrofi e con la voglia del mare che due genovesi di cuore non riescono a far scappare.
Qui nei paraggi dicono che la tradizione rustica, quella da mangiate di panza e sostanza tipiche di questi luoghi e di altri tempi, abbondi di luoghi di culto non difficili da scovare. Federico e Gaia, veramente giovanissimi, non si sentono di rientrare in quel riquadro locale e con pochi anni alle spalle e tanti davanti agli occhi,hanno deciso di cucinarla a modo loro quella tradizione. Spieghiamo meglio per non inserirli nella banale reinterpretazione della cucina italiana regionale. Federico e Gaia non osano reinventare, nemmeno ammorbidire, forse si alleggerire qualcosa (deo gratias!): cercano i prodotti migliori per far emergere il territorio circostante nei piatti, incrociandolo però con i territori limitrofi e con la voglia del mare che due genovesi di cuore non riescono a far scappare.
La loro “tradizione oggi” infusa di liguritudine: è una cucina “Ligurientese o Piemontigure” a seconda
delle preparazioni, cauta e attenta nelle scelte tecniche e di direzioni
gustative, per non confondere e valorizzare la materia prima. Per nuove
consuetudini,dinamiche in gusti e forme, che magari saranno le future
tradizioni. Chi lo sa, ora non importa, basta fare bene.
Pranziamo da Federico e Gaia nella prima Domenica di
Primavera fresca e tardiva, che coincide con la Domenica delle Palme, che crea
po’ di fermento in paese. Il locale è pieno di famiglie e gruppi e la cucina ha
il suo bel da fare. I ragazzi in sala anche, ma sono talmente dinamici e solari
(con bretelle e papillon)che nemmeno ti accorgi della loro presenza frettolosa e della loro fatica per servire in
egual modi e tempi le sale ampie e distanti. La sala ultima, quella vicina alla
cucina,ha un arredo aggiunto: un eccellente tagliere di formaggi coulant all’ingresso. Un velo fastidioso
il suo olezzo per chi gli sta a fianco non per scelta, ma un“welcome to
paradise” per i maniaci gourmand.
La tavola essenziale si completa subito del centrotavola: il
cestino di pane integrale e pane bianco alla polenta “fatto in casa” con
lievito madre. Tiepido e morbido, non alveolato direbbe un panificatore, ma
l’aggiunta “fatti in casa” alla descrizione non è né casuale, né evocativa: definisce
una preparazione buona e soddisfacente, della quale puoi tralasciare le perfezioni
tecniche e di texture a favore di un piacere casalingo. Accanto al pane ci sono
dei cracker al sesamo e, su un piattino separato privilegiato, un elemento
insolito nella cesta del pane piemontese: la focaccia ligure, quella alla mo’
di Genova per davvero. Un po’ pallidina e lievemente nescia commenterebbero i
genovesi puristi, ma di spessore, consistenza invidiabile (che molti panifici
liguri dovrebbero invidiare …) con tanto
di scintillio d’unto.
Con i pani entrano le due entratine, piccole, semplici e piacevoli: un Tacos di polenta, guacamole di fave e quaglia e una Polpettina di pesce con salsa agrodolce. Gentili entrambe, non memorabili, ma di buon auspicio: introduzione di sapori delicati, calibrati e contenuti a venire.
Gli antipasti sono un vero portento tutti, ma il Gambero bianco crudo vince la batteria, grazie a un goccio di Moscato d’Asti in gelatina. I gamberi a mezzaluna disposti sono piccini, teneri, dolci e profumano ancora di mare. Le puntarelle amarognole e croccanti si inseriscono nelle loro note suadenti, con i fiorellini eduli in aggiunta a suggerire che sarebbe primavera lì fuori, e il coulis di caco a ricordare che è appena cominciata. A far la differenza, l’elegante legante collante di sapori: il Moscato d’Asti, pardon di Strevi, dell’azienda Marenco
Poi ancora mare in zona prealpina: Calamaro in padella, asparagi e polvere di pancetta. (non fuori luogo: ricordo le origini del cuoco e della dama di sala e che poi la Liguria è solo una mezzoretta di Turchino più in là). Piatto sicuro e certo, ma solo se la materia prima è top di gamma e in forma smagliante ed è questo il caso, guarda caso. Il calamaro che crocca appena, morbido e non gommoso con tutto il sapor suo, si lega alla crema dal gusto di asparago intenso, approfondita da punte di asparago croccanti e panure di pancetta golosa.
Il Tiepido di gallina, verdure cotte e crude, mostarda di pere e senape e bottarga d'uovo è una banale insalata multicolor, finché non l’assaggi. E ti incuriosisci e ti catapulti nella ricerca di tutte le note gustative che non smettono mai di emergere e cambiare. Auguri: cercarle è facile come trovare un ago nel pagliaio (o il guizzo aromatico in un’insalata di gallina come in questo caso). Chef secret (e bravura).
Il Carciofo è minimal, apparentemente. Perché il carciofo si potenzia se ben piastrato con olio di nocciola e la crema di robiola sotto di lui non si fa certo prevalere di gusto, coadiuvata da una polvere di cipolla bruciata in ripresa del brulée del carciofo. Lì a fianco, bada bene non sopra, il suo gambo con zabaione di parmigiano, limone candito e acciughe, buono e completo. In separata sede, un intramezzino tra gli antipasti.
L’Animella di vitello su crema di parmigiano e cannella è rotonda e ridondante, buona buona, parla francese. Piace, ma dispiace un po’ che rispetto agli staffettisti precedenti manchi del fattore new age, magari fresh, magari acidello (nei limiti del ph del territorio, molto vicino alla Liguria, terra di lievi acidità se non in pochi caruggi che fanno eccezione).
Maybe batsoà non è bella da vedersi lo so, ma in fondo è fiera di essere quel che è: il ricordo di una batsoà delle feste della zia, così grassissima che la mangi a forza, ma che aspettavi dalla festa familiare precedente. Federico trasmette tutto il potere del grasso ricordo nella terrina di piedini di maiale servita a temperatura ambiente, smorzata dal tocchettino croccante e fresco di panure (a rievocare la parte fritta della batsoà). L’insalatina di cavolo, mela e senape è il complemento d’arredo perfetto: agrodolce, accompagna il gusto faticoso di grasso puro fino al termine del piatto eliminandone tutta la pesantezza di fondo. Sta a fianco e non sopra, non si confonde al grasso. Se pare brutta da vedersi poco importa, ha il fascino antico di una portata ostica e goduta nella tavola delle feste da “una volta e per un po’ non lo mangio più, ma ora eccome se lo mangio”.
Mi si è rotta la rotella è una geniale trovata di food design: “ma che figo mangiare i ravioli con forchetta e coltello”. Idea furbetta, simpatica e stimolante, ma da riassettare: il ripieno di baccalà mantecato scompare sovrastato dall’intensità del fondo di pollo alla cacciatora e la pasta rimane troppo al dente e al sapor d’uovo non cotto. Basta sistemare qualche ingranaggio e la riassaggeremo.
Le Linguine di Gragnano su crema di broccoli con broccoli, acciughe del Cantabrico intere e pane profumato all’aglio, rustiche nel piatto non sono descrivibili nel gusto per piccoli problemi tecnici di colatura di alici colata nel momento sbagliato.
I Tagliolini alle Spugnole sono un fuori carta fuori e dalle previsioni. Da migliorare, nel legame tagliolino (buono e cotto al punto giusto) e condimento per evitare la dispersione e separazione totale delle fungo pregiato nel nido di tagliolini e nella valorizzazione del fungo stesso.
Il Fegato di vitello è d’impatto visivo e non solo:sicuro, scuro e si impone sullo schizzo di salsa di fragole e brachetto color sangue intenso con scalogno al balsamico in chiaroscuro, vedo non vedo. Bilanciato soprattutto nella parte bruciata sulla superficie del fegato che impedisce al gusto intenso e al retrogusto ferroso di bloccare l’appetito. Fragole, brachetto e scalogno accompagnano con dolcezza la carne morso dopo morso.
La Faraona ripiena di castagne e fegatini è campagnola: intera, poggiata su un buon purè di patata, ha tutti i sapori giusti che le spettano, ma un po’ grossolani che alla lunga masticazione annoiano. Il secondo servizio, un brulé di fegatini e curry è interessante, se servito a qualche grado in più. In quel momento era temperatura ghiaccio, anestetizzante dei suoi sapori e di quelli limitrofi.
I dolci nell’aspetto e nella raffinatezza ricordano gli antipasti. Il classico Ile flottant è ça va sans dire, classico, triplice tripudio di consistenze di neve d’albume con crema inglese dolce di quella stucchevolezza giusta che non stuccherà mai, con mandorle a fiocchi, cadute un po’ qua e un po’ là da recuperare in ogni cucchiaiata senza sforzi.
La composizione di cioccolato e arancia è un gioco facile, vero, ma stanno così dannatamente bene insieme. Cambiano le forme: il cioccolato è in spugna e in tavoletta e l’arancia in creme e salse. Consiglio agli utenti: non utilizzare le posate, il dolce approfondisce il suo significato goloso se raccolto a scarpetta con la spugna di cioccolato.
Vi ricordate quel carrello di formaggi all’ingresso, quella divinità su tagliere dall’olezzo che fa ribrezzo? Ecco invitatelo al tavolo e lasciatevi sedurre dagli aspetti ruvidi e rustici dei formaggi in evoluzione.
La bocca non è stanca finché non sa di vacca (e Vermouth rosso Distilleria Gualco, consiglio dello chef). Tipica conclusione di pasto piemontese.
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Da martedì minestrone di sintesi letteraria, quindi dopo il "food lab" ripasso di latino.
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