Di fronte a queste due bottiglie dell’annata 2012 appena
uscite dalla cantina Testalonga di Antonio Perrino da Dolceacqua tiro un
sospiro di sollievo.
Arrivo da un assaggio di vini di Ca’ Viola, assai stupito dal fatto che formidabili enologi di fama internazionale riescano ormai a far sapere di vaniglia anche vini affinati in botte grande, in un caso, e di coprire della medesima nobile stecca Bourbon anche vecchie vigne pluridecennali.
Arrivo da un assaggio di vini di Ca’ Viola, assai stupito dal fatto che formidabili enologi di fama internazionale riescano ormai a far sapere di vaniglia anche vini affinati in botte grande, in un caso, e di coprire della medesima nobile stecca Bourbon anche vecchie vigne pluridecennali.
Il progresso, in questo senso, mi lascia marinato di
spezie dolci come un foie gras prima della cottura. Sensazione apparentemente confortevole,
come quando le verticali di vini imbottigliati sotto la medesima etichetta si
rivelano essere più che altro stesi in orizzontale, e neanche ondulati come in un ideale grafico che segua le variazioni delle annate.
Ogni volta invece, quando si tratta di tradurre in
sensazioni i liquidi idroalcolici messi in bottiglia da Antonio Perrino, i sensi assopitisi nella vaniglia e nelle spezie dolci si risvegliano, le
certezze pregresse vengono regolarmente messe (giustamente) in discussione,
anche perché i riferimenti sono sempre pochi, nonostante Nino sia arrivato alla
sua cinquantunesima vendemmia di questa vita, e quindi si presume che il vino
lo abbia imparato a fare da un bel po’. Si dice che un vignaiolo in media abbia non più di quaranta possibilità in una vita per sbagliare i suoi vini. Nino è andato ben oltre la statistica, con tutte le irregolarità imposte dalla mano dell'uomo e dalla natura.
Insomma, dovrebbe aver inteso attraverso la
sperimentazione empirica come si possa trasformare dell’uva matura in un vino
buono senza aiutini esterni, ma rendendosi conto nel tempo e negli anni che le cose non andavano
quasi mai esattamente come avrebbe voluto, seguendo le famose aspettative. Mi
pare che ormai si stia godendo la cosa più bella di questo mestiere artigianale, e cioè la lucida follia del lasciar fare attraverso il suo savoir faire: che sia il suo vino a sorprenderlo, attraverso una natura sorprendente.
Farsi sorprendere dalla natura che fatica a ripetersi
sempre nella stessa maniera, stagione dopo stagione, annata dopo annata. Si
tratta della vecchia e solida condizione Borgognona, quella che ad ogni
degustazione di fronte al vigneron indipendente, indipendente anche dagli
enologi, sfocerà nella consueta conclusione pratica di fronte a vini diversi,
potendo solo concludere che sarà stata ancora una volta l’annata a farsi
sentire ancor prima della mano del’uomo, che la potrà guidare, contrastare o
assecondare, ma nei limiti posti dalla materia prima portata in cantina.
Che cosa sia dunque accaduto in vigna l’anno scorso da Nino
non è di nuovo dato saperlo, fatto sta che l’edizione 2012 dei suoi vini
prodotti segna un singolare passaggio di consegne. Nel senso che al contrario
della precedente annata, in cui fu il Rossese ad essere considerato il migliore
mai messo in bottiglia, stavolta è il bianco da uve Vermentino a lasciare un
segno indelebile sul futuro della piccola grande storia dei vini di queste
parti.
Il colore intenso è quello che ti aspetti, ma è già dalla
pulizia di sentori al naso che capisci che qualche cosa di diverso, di più fine
ed incisivo deve essere successo in fase di fermentazione spontanea da lieviti
indigeni, che stavolta hanno deciso di donare al vino finezza, nerbo e virilità,
già da subito, senza dover neppure far passare il vino in caraffa per far
sparire qualche sentore non troppo elegante presente spesso nei vini delle
passate annate.
Vino deciso, lineare e convincente da subito e senza
mezze misura, e dalla sana bevibilità senza effetti collaterali. La seconda
piacevole osservazione andrà fatta al momento dell’assaggio, perché la
prevalenza della sapidità, quasi della salinità al palato, ricorda l’effetto
che provocano molti Champagne grand cru, dove lo spesso strato gessoso avrà
come al solito trasmesso alle uve e quindi al vino la caratteristica sapidità
che fa piangere la lingua, facendo venir sete, bicchiere dopo bicchiere.
Anche il Rossese, oltre a borgogneggiare come d’abitudine,
ha acquisito una minima quota della medesima anomalia, pur mantenendosi al naso
sulle piene note di mora selvatica, timbro di garanzia di un buon Rossese di
Dolceacqua. Conclusione e consigli per gli acquisti, il Bianco Testalonga 2012
insieme al Rossese 2011 sarebbero una coppietta da metter via a lungo,
cominciando a bere il Rossese 2012 insieme al bianco 2011, perché mai nulla è
uguale se poco addomesticato.
gdf
Quante gliene hai sciurbite in quella cantina...:)
RispondiEliminaFortunatamente tante
EliminaTi ho colto stavolta, fatti vedere una su cento