domenica 27 febbraio 2011

Il vino POP del giorno : Franciacorta Brut Berlucchi ‘61

- gdf 2011- Per motivi anagrafici dovevo provarlo, siamo prossimi al mezzo secolo, ci stava questo incontro per guardarci in faccia e devo dire che non è stato un incontro di quelli malinconici di chi si ritrova in condizioni macilente a confrontarsi le rughe, almeno lui, che cinquanta non li ha ma è ancora un giovincello di bella presenza etichettato così per l’anniversario. Lei neanche, che li ha ma rimane molto esuberante al contatto con qualunque contenitore o bicchiere che sia, e si esprime fitta e intensa, morbida, per rientrare poi nei ranghi e lasciare spazio visuale al paglierino delicato rinvigorito da riflessi verdini ed a un perlage fine ed inizialmente disordinato, ma in seguito incanalato in sottili fili di microsfere che instancabilmente si dilettano a salire a galla con bella continuità e compostezza.


Il naso rivela subito fiori bianchi e frutti del medesimo colore e ben maturi, insieme ad una invogliante sensazione di lieviti che farebbe venire in mente una fumante pizza appena uscita dal forno. Sullo sfondo una elegante vaniglia, appena appena, niente di allarmante, come in una giovane espressione di Meursault village profumato come una cortigiana di Versailles, sensazione che si accentua quando il vino sale di temperatura e rimane gradevole, e lo sarebbe ugualmente anche se non avesse le bolle, pur mancando della mineralità che lo potrebbe ricondurre mentalmente ad un vino fermo de la Cote de Beaune . In bocca è piacevolissimo, fresco, giovane, pulito, acido, rinfrescante, ma non me la racconta giusta, come un finto biondo o un falso magro. Non lunghissimo e non di grande ampiezza ma senza nessuna grossolanità o sbavatura. Sufficientemente semplice quanto non troppo banale anche per la piacevole chiusura che lascia la bocca asciutta ma corredata da un curioso giro di aromi di cedro e bergamotto ruffiani quanto intriganti. Immagino possa raccogliere consensi dalla maggioranza assoluta del pubblico che lo proverà, innanzitutto all’aperitivo, e ce ne vorranno almeno due bicchieri in quel caso, insieme anche ad un solo grissino torinese. A tavola provato con grande piacere insieme ad un nasello al vapore nappato da maionese fresca, ma credo che anche una buona margherita con fior di latte pugliese non sarebbe niente male. Estremisti astenersi, vino pop che piacerà a tutti e travolgerà le masse, come fa lei, che proprio non è 61 ma siamo li, contando sempre su un fondo schiena che continua a tenere bene.

Se ce la fate guardatelo tutto, io la adoro quando fa così , cioè praticamente niente di indimenticabile, nella più classica espressione della filosofia del “ se non riesci a convincerli confondili” , ma la costruzione è importante quanto degna di rispetto .

... per apprezzare meglio il perlage allargare " l'immagine " please ;-)

Berlucchi '61
Franciacorta Brut s/a
Chardonnay e 10 - 15% Pinot noir
Sboccatura 2010




gdf


venerdì 25 febbraio 2011

Le Garzantine vino : quando l'enciclopedia disinforma

- gdf 2011-

Riprendo la presentazione di quest'opera dal sito labucadelvino.com "Ecco un libro degno di figurare nelle biblioteche di ogni appassionato di vino : la Garzanti ha voluto inserire tra "Le Garzantine" un volume sul Vino in grado di fornire al vasto pubblico di estimatori – neofiti o cultori già esperti – e agli operatori del settore un supporto conoscitivo a 360° sul mondo del vino, trattato nei suoi lemmi da ogni possibile prospettiva. Per chi non lo sapesse, questa collana di grande successo nata nel 1962, si compone una serie di enciclopedie tematiche dedicate ad argomenti vari dall'arte, all'economia, al diritto, alla filosofia, per non parlare di cinema, letteratura, televisione e per molti è stata ed è un utilissimo, duttile strumento di conoscenza e di divulgazione. 2300 voci – 600 lemmi di ampelografia ed enologia – 120 termini della degustazione – 70 vini italiani – 300 produttori italiani – 550 vini e produttori di tutto il mondo -70 Schede di approfondimento – 66 Profili enologici nazionali e regionali – 64 Tavole a colori fuori dal testo. "

Tutto bene, presentazione impeccabile, peccato che invece gli autori possano aver inserito nel sacro testo una presentazione così inesatta , ambigua e disinformante su uno dei Domaine più prestigiosi del pianeta, leggete qui :

LEROY, Domaine

"Azienda vitivinicola borgognona di Meursault, nel dipartimento della Cote d'Or. Eccezionale Maison de Négoce fondata nel 1868, comproprietaria del Domaine de la Romanée Conti dal 1942, dispone di 23 ettari di vigneti, tra i quali spiccano nove prestigiosi grand cru ( tra cui in rosso , Richebourg grand cru AOC e Clos de Vougeot grand cru AOC, e in bianco Corton Charlemagne grand cru AOC ) e otto premier cru, tra i quali si segnala il Meursault Premier Cru AOC Genaivrieres. Il Domaine è diretto dalla vulcanica Lalou Bize Leroy che dal 1989 pratica la coltura biodinamica con risultati qualitativi splendidi. Vini rarissimi e carissimi."

Ora, chi sa come stanno realmente le cose starà già sorridendo, ma non volendo dare nulla per scontato, come pensare che ogni cosa scritta su un libro o sul web sia veritiera, sarà quindi comunque meglio precisare che :

Se si indica nel titolo dell'argomento il Domaine Leroy non si può poi identificarlo come una maison de négoce che è cosa diversa, che in effetti esiste ma si chiama Leroy s.a. e si occupa di altre cose piuttosto che della coltivazione biodinamica dei vigneti di proprietà. Il Domaine ha sede a Vosne Romanée e non a Meursault. A Meursault , anzi, per la precisione a Auxey Duresses si trova la maison de négoce.

Il Domaine de la Romanée Conti non è in comproprietà con il Domaine Leroy, Madame Leroy e la DRC hanno diviso le loro strade da circa 20 anni . E non poteva comunque esserlo, essendo stato fondato nel periodo in cui l'azionariato della famiglia stava uscendo dalla DRC.

Il Domaine possiede in effetti 8 premier cru, tutti in rosso e non certo un Meursault Premier cru Genaivrieres.

Sperando che non ci siano nell'opera altre schede come questa e che il noto curatore del libro, Paolo della Rosa , abbia potuto controllare meglio le migliaia di informazioni fornite fittamente nelle 760 pagine.

-gdf-





giovedì 24 febbraio 2011

Leggere e rileggere: Enrico Bernardo e i migliori vini del Mediterraneo.

- gdf 2011 -

La culla e le origini del vino di questa parte e dell’altra del Mediterraneo, quella scossa da movimenti rivoluzionari che stanno marcando queste ultime settimane e che lasceranno inevitabilmente il segno nel prossimo futuro. E mi ritorna allora in mano questo strumento didattico che esplora a 360 gradi la civiltà del vino anche dove le civiltà e la civilizzazione sono state, lo sono ora e lo saranno sempre di più intese in maniera diversa.

Bernardo ha viaggiato in questi 13 paesi e ci racconta, dall’alto della sua esperienza e della sua storica investitura a miglior sommelier del mondo, dapprima in maniera scolastica e impersonale, scendendo in seguito nella più interessante parte pratica quali siano le eccellenze che ha incontrato in questi paesi così vicini ma così distanti. Dei 4000 vini presi in esame ne ha selezionati alla fine un migliaio. Sorprende un po’ l’inserimento di zone che proprio così mediterranee non sono, e cioè il Piemonte e il nord della Valle del Rodano, dove ovviamente le valutazioni più alte non mancano, mentre pare che l’alta qualità assoluta del vino italiano si fermi alla Toscana con l’eccezione di Pantelleria. La scena è dominata a nord dal sud della Valle del Rodano, e in dettaglio dalla denominazione Chateauneuf du Pape. Bene anche la Spagna dove però le eccellenze sono concentrate più al sud, in Andalusia per i suoi grandi vini dolci o secchi, piuttosto che in Catalunya, per altro ben rappresentata con i suoi grandi rossi. Piacevoli sorprese dalla Grecia, a quanto pare considerabile il quarto paese dell’area sul piano qualitativo. Perle dalla Slovenia, da Malta e da Cipro. Di queste ultime due isole si vede poco o nulla da nelle nostre parti, ed è un peccato non poter verificare con una certa facilità le caratteristiche di questi prodotti. Le stringate ma sinteticamente complete schede tecniche di degustazione si occupano dunque di questi 13 paesi: Italia, Francia, Spagna, Slovenia, Croazia, Grecia, Cipro, Israele, Libano, Malta, Algeria, Marocco e Tunisia. Un buon libro se inteso come fonte di informazioni di nicchia, che invitino a provare cose diverse da quelle che siamo abituati a bere normalmente in Italia, mentre sul piano generale informativo replica all’infinito quanto possibile leggere in decine e decine di altre opere. Tenendo quindi in maggiore considerazione il primo aspetto sarebbe opportuno privilegiare i paesi emergenti, sforzarsi di reperire le cose più originali e meno conosciute in Italia e così allargare i propri orizzonti.




Enrico Bernardo
I Migliori vini del Mediterraneo
Mondadori



-gdf-




mercoledì 23 febbraio 2011

Il secondo elemento

Il quarto elemento

- del Guardiano del faro -

Il quarto elemento tra noi quattro gatti che ci dilettiamo a far quattro chiacchiere on web su temi gastronomici rappresenta, tra l’altro, il soprannome affettuoso affibbiato a un noto chef stellato e pluri cappellato fattosi notare a suo tempo per la precisa intenzione di non voler mai chiudere la costruzione di un piatto prima di averci messo dentro un elemento più del necessario, atteggiamento frutto del marchesismo craccato, filosofia che non poteva più accontentarsi di fermarsi alla saggia regola del 3. Il quarto elemento è anche inteso per i soliti quattro gatti in carenza cronica di lipidi l’elemento più rischioso da aggiungere quando un piatto è già stato costruito sufficientemente bene per poter reggere un elemento ulteriore che nove su dieci ne comprometterebbe gli equilibri precari: è il solito caso/esempio dello spaghetto al pomodoro e basilico, dove qualsiasi altro elemento aggiunto diventa problematico e quasi sempre disturbante, coprente o comunque superfluo. Il quarto elemento era inteso anche nel poker di pesci da lisca presenti nelle Grande Carte di tutte Les Grandes Tables de France per decenni, dove questi quattro ci dovevano essere sempre : bar de ligne, lotte, dorade royale e turbot. E fosse mancata la lotte ( gli altri mai ) ci pensava le rouget ( al sud ) e la sole ( al nord ) a chiudere il quadrilatero, questo oltre ai due crostacei e alle due conchiglie (scampi e astice più St. Jacques e ostrica) , altro quartetto di elementi spesso impiegati solo nei piatti di entrata mentre tutti i pesci da lisca finivano per editto inappellabile nell’elenco dei piatti principali.



In una occasione non ce la feci proprio a stare zitto e domandai allo chef Christian Morisset,( devo andare a trovarlo in quel Figuier ad Antibes ) titolare in quel momento di una cucina di palazzo tra le più nobili della Costa Azzurra il motivo di tanta carenza di fantasia. La risposta fu che la ricca e pacata clientela del bellissimo Hotel Juana / Restaurant La Terrasse di Juan les Pins non ne voleva sapere più di tanto di quello che stava dentro il mare, aveva imparato quei quattro termini e così poteva bastare per quel due stelle 18/20mi e per decine di altri locali del medesimo livello. Come dire, questa carta è stata realizzata per venire incontro alle vostre capacità mentali. Immaginate lo choc quando Colagreco riempì la sua carta di polpi, saraghi, seppie, sgombri, moscardini e altri misteriosi esseri marini sconosciuti alla clientela assuefatta da decenni di monotonia. Chissà, forse questo è stato il motivo di disperazione per alcuni maitre che hanno lavorato per un breve periodo al Mirazur, incalzati da domande quali: Pas de turbot ? Pas de bar ? Vraiment? In altri momenti il termine è stato invece riferito all’altro poker che assolutamente non doveva mai mancare in un menù degustazione pluristellato in qualsiasi parte d’Europa dove fosse proposto. La cucina borghese e di palazzo, la cucina trois etoiles, la cucina da Relais Gourmand, la cucina Traditions et Qualitè . Qui la ricerca del quarto elemento era talmente elementare da non farci neanche più caso perchè la sequenza arrivava implacabile in ogni menù degustazione degno di questo nome : foie gras, homard, truffes et caviar . Unica variabile poteva essere la sostituzione dell’homard con les langoustines, quando non presenti entrambi.



Sorridevo, prima pensando e poi filtrando con il colino della retina degli occhi le foto dei piatti apparsi ieri su Passione Gourmet e relative al menù degustazione di Philippe Rochat, spartiacque tra il vecchio e il nuovo all’Hotel de Ville di Crissier. Il poker d’assi è stato nuovamente servito e non poteva far altro che vincere facendo saltare il banco , nonostante l’evidente barocchismo elvetico la cui capitale dovrebbe essere Soletta e non Crissier, nonostante le presentazioni ostentative e dell’uso pleonastico di strumenti e ingredienti. La sequenza ruffianissima di ben cinque brodetti cremosi più o meno legati , emulsionati o sbattuti, le buonissime salse classiche , l’immancabile tappa davanti al carrello dei formaggi , i dessert sonnacchiosi quanto decorativi ed un solo pallido segnale di modernismo vagamente minimalista ma immediatamente ridotto alla facile comprensione da una ricca cucchiaiata di caviale fresco a ricordare che il prezzo preteso per il menù avrà così la sua logica e documentata motivazione incontestabile. Queste cose ormai in Europa se le possono permettere in pochi e giustamente le giovani generazioni di chef hanno girato il timone facendo rotta verso materie prime diverse e non così costose , muovendosi più verso la trasformazione e l’accostamento maligno o ruffiano di prodotti a basso prezzo , lasciando perdere i prodotti più classici quanto costosi, perché su queste cose se vuoi fare la differenza devi andare a comprare il top di un prodotto che è già inteso al top e quindi se non sei sicuro di fare il pieno ad una media di 300 euro a coperto chiudi a fine anno. Di un foie gras, di un tartufo nero, di un caviale fresco e di un crostaceo dell’Atlantico il vero gourmet incallito ne ha discretamente piene le palle oltre che averne in mente un repertorio infinito, e quindi se vorrai farlo sobbalzare davanti a quello che per lui è ormai routine dovrai acquistare materie prime costosissime e valorizzarle ulteriormente con la massima cura, che da quelle parti, in Svizzera, non vuol dire lasciarle il più naturale possibile, ma bensì andarci sopra riccamente con altrettanta consistenza di condimento e accompagnamento che sia in armonia o in contrasto, e inconsciamente al cliente, ridurle allo stato cerebrale di texture se vuoi chiamare questa cucina alta cucina. Sono oggi sempre più rari per evidenti motivi i locali che possono permettersi questi lussi corredati da questa qualità sublime, e quindi vale sicuramente la pena di visitarli prima che si estinguano definitivamente come il dodo, prima che la loro clientela si estingua naturalmente per raggiunti limiti di età, prima che la moda del Novecento, la moda del quarto elemento sia ridimensionata o scompaia, e sia rimpiazzata da stili e modi fuori dagli schemi insegnati dai maestri del secolo scorso. Andate a Crissier prima che sia troppo tardi. -gdf -


The Beatles, quattro uomini, quattro strumenti, fantastici quanto datati.

martedì 22 febbraio 2011

Buoni propositi : visitare il due stelle Michelin più alto e meno caro d'Europa, L'Oxalys

- gdf 2011 -

La newsletter della Michelin giunta questa mattina alla mia mail è quanto mai intrigante. Intrigante ed invitante, perchè indovinare una bella giornata di sole per raggiungere quota 2300 metri nel cuore delle Alpi Savoiarde e potersi sedere ad una delle tavole meno conosciute ma sicuramente più qualitative d'Europa è un piccolo progetto che andrebbe messo in programma, che sia nel periodo innvevato invernale così come nel periodo fiorito estivo. L'articolo tradotto di Emmanuel Tresmontant è riportato integralmente qui di seguito ed invita inevitabilmente a partire. Le foto sono originali di Jean Sulpice.

"A 2.300 metri d’altitudine, Val Thorens, che finora non aveva alcuna tradizione gastronomica, inaugura una nuova era: quella della grande cucina! Così, con gli sci ai piedi, si può andare a pranzo all’Oxalys, situato proprio all’ingresso delle piste, dove il giovane chef Jean Sulpice propone uno dei menù a due stelle più abbordabili di Francia…

Ricorda: solo poco tempo fa, le stazioni di sport invernali erano delle no man’s land gastronomiche, e soggiornarvi una settimana era sinonimo di pizze, fondute e raclette a volontà. Fortunatamente, quest’epoca triste è finita e il mangiar bene fa ormai parte delle priorità degli amanti dello sci.
Così, Val Thorens fa scuola: fino al 2002, era quasi impossibile consumarvi un pasto decente, e (per una volta!) non si poteva che approvare il comportamento degli Olandesi che non viaggiano mai senza portarsi dietro il cibo… Da allora, un giovane chef ha deciso di dare un nuovo impulso alla stazione: è Jean Sulpice.
Questo savoiardo puro e duro, che non si sposta mai senza un coltello a serramanico in tasca, ha innanzitutto colto la sfida che pone l’altitudine: a 2.300 metri, con strade regolarmente bloccate dalla neve e con temperature che possono scendere al disotto dei 18 gradi, non si cucina come a valle.

Procurarsi delle capesante o dei rombi di Bretagna implica una logistica non indifferente. I tempi di cottura sono più lunghi, il pane e gli alimenti si seccano più in fretta al contatto con l’aria (con scarsa umidità), e anche i vini stessi si gustano diversamente, come i rossi, che invecchiano rapidamente, e gli champagne, le cui bollicine si rivelano più fini e vigorose (il che è piuttosto un vantaggio)!
Il merito di Jean Sulpice è quindi quello di far dimenticare tutte queste contingenze. Si va a mangiare da lui, con gli sci ai piedi, come se niente fosse, «quando invece è la montagna che decide»…
Con due stelle nella Guida Michelin e un menù a 50 € che lo piazza tra i ristoranti gastronomici più abbordabili di Francia, Jean Sulpice ha vinto la sua scommessa. Si va a mangiare da lui d’inverno, in piena stagione, ma anche d’estate, rientrando da un’escursione.
Sul piano culinario, Jean Sulpice si distingue soprattutto per la sua abilità nelle cotture e nel condimento. La sua forza consiste nell’aver assimilato i canoni della cucina francese, da Pierre Marin, lo chef stellato dell’Auberge Lamartine, al Bourget-du-Lac. «Lì ho imparato a spellare una lepre per la cottura à la royale (con ripieno e brasata al vino), a sfilettare i pesci del lago, a preparare i gamberi à la nage (serviti con il loro brodo di cottura), il bollito, la blanquette (carne a pezzetti cotta in umido con salsa bianca), la terrina di foie gras, i fondi di cottura… Non si può esser creativi senza avere le basi della cucina.»


A 18 anni, lo choc culturale: ancor prima di ottenere il suo diploma C.A.P. ( Certficato di Attitudine professionale ), comincia a lavorare da Marc Veyrat dove scopre una cucina strabiliante che non somiglia a nulla di ciò che conosceva. Succhi miscelati, spume preparate col sifone e infusi di piante selvatiche… “Mi sentivo perso, mi ci sono voluti 6 mesi per adattarmi! Ma alla fine, sono rimasto 5 anni. Una svolta nella mia vita.” Per Marc Veryat, Jean Sulpice era dotato di una sorprendente maturità, considerata la sua età: “un ragazzo come se ne incontrano pochi nella propria carriera.”
I piatti assolutamente da non perdere all’Oxalys? Senza dubbio, il pigeon en croûte de foie gras avec sa poêlée safranée de légumes oubliés et son jus à la réglisse (piccione in crosta al foie gras con verdure antiche saltate in padella e zafferanate e succo alla liquirizia):la cottura e il condimento sono esemplari, l’armonia dei sapori è stupefacente! Lo chevreuil rôti au foin et jus de cacao (capriolo arrosto al fieno e succo di cacao)vale anch’esso il viaggio: stufata, la cacciagione resta tenera nel mezzo e il tocco di cacao, diluito in salsa al porto, conferisce una delicata punta di amarezza e rotondità.
Alcuni piatti hanno fatto la reputazione di Jean e sono presenti nel menù tutto l’anno, come ad esempio la sua velouté de châtaignes en chaud-froid de parmesan(vellutata di castagne in salsa chaud-froid di parmigiano, preparata a caldo ma servita a freddo): una zuppa leggera e rigenerante che profuma di tartufo nero. L’aroma del parmigiano conferisce leggerezza e una dolcezza lattea che contrasta con la consistenza spessa della zuppa di castagne. Una delizia.
Sul fronte dei dessert, Jean Sulpice ne ha creato uno di cui è particolarmente fiero: si tratta di una mela la cui buccia è stata sostituita da una coque de méringue croquante (un guscio di meringa croccante) e perfettamente sferica. Affondando al suo interno il cucchiaino, si trovano dei pezzi di pommes confites au miel (mele candite al miele), altri pezzi freschi, della chantilly parfumée à l’antésite(panna montataprofumata all’antesite, un estratto di concentrato di liquirizia aromatizzato all’anice) e della glasse au miel(gelato al miele)…Un insieme esplosivo che combina acidità e dolcezza.
“Non abbandonerò mai la mia Savoia natale,” afferma Jean Sulpice, che adora partire da solo per andare a rifornirsi dai piccoli produttori. La sua cucina, tra l’altro, rende onore ai più bei prodotti della regione: il formaggio fermentato di Termignon di Marcel Bantin, i pesci e i gamberi del lago Lemano pescati da Eric Jacquier, il miele di montagna di Michel Mathiez, il pane alla farina del Triève dei Duprat (a Menuires), le piante secche di Benoit Claude e Philippe Durand (che coltivano biologicamente fiori di sambuco, genepì e asperula).
Magalì, moglie di Jean Sulpice ed ex sommelier di Marc Veyrat, è - quanto a lei - responsabile della carte dei vini. Ed è a lei che devo una vera e propria scoperta: i vins de pays d’Allobrogie di Brice Omont, prodotti a Cevins, non lontano da Albertville. Dei vini dalla mineralità eccezionale che si sposano meravigliosamente con la cucina di Jean Sulpice!
“Un cuoco deve anche impegnarsi e pensare all’avvenire. Per questo io cucino tutti i giorni per la mensa del nido di Val Thorens e porto ai bambini dei buoni piatti.” Il successo riportato da questa iniziativa supera i pronostici, poiché i bambini, la sera, rifiutano di mangiare quello che cucinano loro i genitori e spingono questi ultimi… a prendere lezioni di cucina dall’amico Jean! “ È cosi che si prepara una nuova generazione di gourmand.”


L’Oxalys
Val Thorens (Savoia)
Tel: + 33 (0)4 79 00 12 00



- gdf -

lunedì 21 febbraio 2011

Bozza di decalogo della filosofia del barbonismo etico.

- del Guardiano del Faro –

Avviso ai naviganti

Differentemente dalla scelta di vita del clochard, il cui cambio di vita può essere dovuto ad un insieme di motivi o da uno specifico tra quelli che possiamo ben immaginare, il barbone etico si potrebbe evidenziare nel suo modo di essere per il non totale abbandono di un certo contatto con la vita sociale e delle buone maniere, pur decidendo di passare alla vita borderline, così come fu il caso di quel manager milanese che l’anno scorso decise spontaneamente di mollare tutto per andare a vivere nelle stazioni milanesi, per sua scelta di abbandono della propria attività redditizia di broker ma anche per sfruttare la sua cultura a beneficio di chi si fosse trovato in quella situazione non proprio del tutto convinto, ma in parte vittima delle proprie scelte oltre che di quelle di altri, o di altre. Adesso che sono riuscito a formare un periodo di dieci righe senza metter un punto e senza far venire il mal di mare a chi legge posso proseguire. Premetto che questo è solo un approccio all’argomento e se qualcuno fosse eventualmente interessato a pubblicare l’opera integra stavolta caccia i soldi prima e poi degli scritti ci faccia quello che gli pare, quindi, comme on dit a Milan, barboni astenersi. Dicevo, il barbone etico, essendo persona di una media cultura e proveniente da uno strato sociale non proprio ultimo dovrebbe rendersi conto con un certo anticipo quando sarà il caso di darci un taglio, o come dicono a Londra, prima di trovarsi in the middle of the street. Qui ci sarebbe anche da affrontare la differenza sostanziale tra barbonismo continentale e barbonismo mediterraneo, però non corriamo troppo, tutto insieme poi si capisce poco. Torniamo al barbone etico generico. Una volta resosi conto del cambiamento irreversibile del vento e della deriva contraria potrebbe anche evitare di alterare il panorama notturno delle città andando a mettersi sotto i ponti con cartoni e coperte, meglio sarebbe un piccolo monolocale con orto dove coltivare verdure da scambiare o rivendere. Auspicabile il futuro cambio in borsa in rapporto uno a uno tra un carciofo e un uovo di gallina. Questo come base, poi ci sta anche la gallina ammazzata in cambio di una cassetta di pomodori come una bottiglia d’olio per una dozzina di acciughe fresche. Il barbone etico si veste con abiti dignitosi, anche di seconda mano ma non di manifatture orientali da pochi euro e di nessuna qualità, per non sfruttare una povertà prossima allo schiavismo e quindi neanche libera come la sua scelta. Il barbone etico si muove in bicicletta, ma quando avrà necessità di percorrere distanze in maniera meno faticosa prenderà un autobus, prevedendo di aver in tasca una grossa banconota, sempre la stessa da anni, questo perché chiedendo di acquistare il biglietto direttamente all’autista quest’ultimo non avrà mai ne il tempo ne i liquidi per dare il resto. Questo esempio per far capire che non si tratta di barbonismo, perché il barbone etico vorrebbe pagare, è l’autista o il controllore che non saranno in grado di dare il resto di 198,50 euro e quindi la coscienza sarà a posto. Il barbone etico non va al ristorante importante, ma neppure al fast food internazionale eretico, al limite, se e quando potrà, si recherà alla piccola trattoria a menù fisso di cucina regionale con massima spesa di 11 euro tutto compreso. Il barbone etico non ha necessità di televisione o di radio, però di un piccolo p.c. si, perché utilizzando i wifi pubblici avrà comunque modo di rimanere informato e di non abbrutirsi, in questo senso va anche la scelta di non far uso di stupefacenti. Il barbone etico non beve grandi vini, caso mai grandi bottiglie, se riesce a far di scambio tra le sue bietole amare e i gli scontrosi vinelli da bottiglione del contadino che gli vive a fianco. Il barbone etico farebbe però bene anche a metter via a suo tempo una buona scorta di Campari e Tanqueray per sopportare una vita così di M . - gdf -

domenica 20 febbraio 2011

Monetine al supermercato

- gdf 2011 -

L’elemosina la faccio ad altri, non a chi vorrebbe il carrello da riportare alla base e prendersi così un euro. Ci sono artisti nelle città piccole e grandi che ti regalano briciole di sentimento artistico, musica o arte tutt’altro che povera anche se da strada e che possono essere ripagati con quello che desiderano, una monetina. Forse me lo sento, forse è quello che un giorno vorrò provare, fare il barbone, ne ho conosciuti tanti in questi ultimi anni, perché non provarci, saltare anche questa barricata, fare come loro, ma quelli con dignità, non i barboni ricchi di furbizia ma poveri di identità e di etica che ti possono fare più male dei ladri perché ti hanno tolto uno spazio mentale nonchè vitale. Io invece vorrei fare il barbone etico e non utilizzare le ultime monetine o quelle che cadono in tasca giornalmente frutto di espedienti per giocarle in macchinette mangiasoldi.




Per il momento con le monetine giornaliere che rimangono per le tasche cerco di mantenere una dignità alcolica, un campari, un gin tonic, una bottiglia di bianco al supermarket. Quelle che servono che comprare un onesto, valido e a volte addirittura eccellente vino proveniente dell’ Alto Adige o se preferite dal Sud Tirol. Le mie monetine destinate ai vinelli di tutti i giorni io le dono tutte ai vignaioli del Sud Tirol. Ne sono convinto, e direte, sai che novità, hai scoperto l’acqua calda. Si, ne sono sempre più convinto ogni volta che entro in un qualunquemente edificio dedito alla somministrazione di Grande Distribuzione Organizzata. Nel cesto finiranno il succo d’arancia anti sbornia, il rotolo di carta igienica, i piselli surgelati, le batterie per la macchina fotografica, la birra tamarra per i momenti di ansia da p.c. e poi verrà il momento di buttare un occhio allo scomparto vini kitsch, dove in effetti di belle sorprese non ce ne sono quasi mai, ma la sete è tanta e qualche minkiata finisce sempre nel carrello . Volendo evitare la ciofeca certa e sicura il sistema che applico è ( in carenza di etichette dignitose scritte in francese ) il rivolgermi alle etichette scritte in tedesco. Mai beccato una ciofeca imbevibile targata dalle cantine sociali alto atesine. E non sto parlando di quella Terlano, che credo possa essere intesa come la migliore sul territorio italico, ma anche di produzioni meno raffinate e addirittura ancora meno costose. Dato per certo che per un bianchista come me trovare in una pur modesta carta i vini della Cantina di Terlano rappresenta una ciambella di salvataggio sempre affidabile, ma anche altre cantine che non sto qui ad elencare mettono a disposizione del grande pubblico degli iper e super market una gamma di prodotti che se non hai il palato asfaltato dovresti riuscire ad apprezzare, perchè hanno due o tre marce in più rispetto a tutta quell’inutile quantità di sciacquature esposte a prezzi anche maggiori. Fascia 5/9 monetine . Accidenti, pinot bianco, chardonnay, sylvaner, sauvignon, traminer, moscato giallo… e via così, perché il varietale è molto vario da quelle parti e anche quasi sempre perfettamente identificabile nei suoi modesti ma onesti limiti, mai caricaturale, anzi, quasi sempre pulito e identificativo. Non cerco grande complessità, cerco freschezza, acidità, verticalità e franchezza di profumi e di sapore, e con questi prodotti la trovo praticamente sempre. Augurandomi che un pochino di conoscenza ed esperienza mi porti ad utilizzare bene in futuro qualche monetina presa fuori da un supermercato. - gdf -


http://www.youtube.com/watch?v=MTfkeLeO890&feature=related

sabato 19 febbraio 2011

Testa di rapa

- gdf 2011 -

Forse l’ortaggio più bistrattato dalla tradizione, sia nei modi dire, sia nei proverbi e infine anche negli impieghi di cucina, almeno storicamente. Non si cava sangue da una rapa. Al Francese un oca, allo Spagnolo una rapa. Soldati del Papa, in otto per cavare una rapa. Come dire, è impossibile pretendere di trovare dei validi contenuti dentro a chi o a cosa è palesemente incapace di produrli.

Invece mai disperare, perché in effetti fu solo questione di tempo, perché inizialmente la nobiltà del tubero multicolore si cominciò ad avvertirla nelle tavole mitteleuropee, dove nella famosa garniture di vegetali non mancava mai la nota dolce-amara di una rapa bianca . Una buona navet cesellata e resa fondente da opportuna cottura e appena lucidata da un salto in una padella unta di burro d’alpeggio spesso primeggia tra carote, broccoletti, cavoletti, taccole ecc… Proprio per le sfumature di sapore molto complesse e più varie rispetto a molti prodotti dell’orto. La versione rossa invece, la barbabietola rossa, questa ha avuto ancora più problemi a sbarcare sulle grandi tavole. Ci si sporca le mani sbucciando la rossa, e poi che ci fai con quel polposo tubero che a volte sa fin troppo di terra ? Tante cose sono state fatte e qui ne metto in fila qualcuna che hanno fatto la felicità di molti gourmet. La più semplice di tutte, in versione casalinga consiste nel frullare una barbabietola rossa, passarla al chinoise ed emulsionarla con un pizzico di sale grigio e un cucchiaio di aceto di lamponi. Niente olio, non serve, la barbabietola è già “untuosa” di suo . Poi prendiamo dei dolci gamberi testa viola e li intingiamo a crudo dentro questa emulsione per realizzare uno dei pinzimoni più golosi immaginabili. Coppetta di Champagne rosè in accompagnamento giudizioso e la quantità di gamberi si dimostrerà sempre insufficiente.

Qualche piatto “testa di rapa” :


Rape, rape, rape, rape... Mauro Colagreco.

Bistecca di rapa... Piergiorgio Parini


Risotto con barbabietola rossa e gorgonzola... Enrico Bartolini.

Risotto con rapa bianca, caffè, cacao, miele... Christian Milone.


Peche, navet, betterave... Alain Passard

Glace de navet daikon au raifort... Pierre Gagnaire.

Foie gras et betterave... Marc Veyrat


ecc...ecc...ecc...
E in abbinamento questa eccellente testa di rapa, qui in esibizione dal vivo palesemente ubriaca.


gdf

venerdì 18 febbraio 2011

Il vino del giorno: niente di che...

- gdf 2011 -

Mi consigliano in enoteca questo champagnino sconosciuto ma di nobili contenuti, almeno in etichetta, perché è grand cru di Avize e perché è di un recoltant ? A volte evidentemente non basta perché già il colore dice poco : paglierino chiaro di scarsa intensità con riflessi verdini che farebbero pensare a qualche cosa di grintoso e di acerbo e in effetti il naso citrico sembra confermare quella sensazione. Indagando ulteriormente salta fuori qualche nota di frutta bianca in mezzo al brioso perlage, quest’ultimo di pregevole grana fine. In bocca si siede bello comodo distraendo i sensi dall’impressione visiva e nasale, perchè poco sapido e perché probabilmente il dosaggio è piuttosto alto e quindi diventa quasi stucchevole alla lunga. Champagne femminile questo Varnier Fanniere, da buttare giù bello ghiacciato per nascondere le mollezze che non lo rende ideale neanche per un Kir Royale, che lo farebbe virare ulteriormente verso il dolce, salvo forse buttarci dentro del succo fresco di melograno, e allora astringenza e acidità sarebbero finalmente in grado di compensare l’eccessiva rotondità e la mancanza di personalità.


Varnier Fanniere
Champagne Grand Cru
Blanc de Blancs
Avize
R.M.



gdf

giovedì 17 febbraio 2011

Armadillo's Meeting

Mi chiedo, ma non si potrebbe fare così?


Il prossimo tre stelle Michelin 2011 ? : Guide Rouge France.

- gdf 2011 -

Tira un arietta petillant sui blog più sensibili alle vicende relative ai deschi gallici . Potrebbe esserci un nuovo tre stelle nel nord della Francia in marzo, lo si indovina anche leggendo quanto scrive l’informatissimo giornalista del Figaro François Simon. L’anno scorso la Rouge andò a premiare il profondo sud ovest dell’ esagono a Fontjouncouse, nella terra dei Catari, mentre quest’anno potrebbe prendere la direzione diametralmente opposta e salire a nord est verso Reims. Senza nulla togliere alla indubbia qualità della tavola del giovane trentacinquenne Arnaud Lallement e alla totale eccellenza nell’arte dell’ospitalità del suo Assiette Champenoise ci sta nel consueto pettegolezzo carnevalizio anche il solito girotondo di opinioni di contorno.

La prima è il solito teorema geopolitico, perché una città come Reims è rimasta orfana di un tre stelle dai tempi di Gerard Boyer nel fastoso Les Crayeres, lasciato poi orfano l’anno scorso anche dal bistellato Didier Elena e tuttora in rallentata fase di rilancio. Inoltre la città è capitale della denominazione di vino più importante al mondo , produzione ed indotto che continuano anno dopo anno a sostenere prepotentemente un economia che riflette il suo profilo e lancia la sua ombra ben oltre i confini regionali e della denominazione stessa. La lobby e l’ufficio stampa dei produttori de la Champagne è il più organizzato e perforante del pianeta, davanti anche alla corazzata bordolese ed agli agguerriti divulgatori di belle notizie relative al Brunello di Montalcino. Poi, se ci vogliamo mettere anche l’ottocentesimo anniversario della cattedrale di Reims mi pare che le motivazioni di contorno per far saltare i tappi non mancherebbero affatto. Non conosco il giovane Arnaud, passai da quelle parti quando il timone lo reggeva suo padre, allievo di Chapel e morto alla medesima età del suo maestro. Il ragazzo si è dovuto asciugare gli occhi e rimboccare le maniche in fretta di fronte alla pesante eredità di un hotel con cinquanta camere da rinnovare e relativi coperti al ristorante da rilanciare e la cui cucina è stata recentemente ampliata in vista della possibile evenienza . E’ evidente che le difficoltà non hanno messo sotto il ragazzo , che comunque vada ha già fatto moltissimo per se stesso e per la sua città in attesa di vedere se il terzo macaron si unirà agli altri due macarons.


Da sinistra : Arnaud Lallement dell'Assiette Champenoise di Reims, Edouard Loubet ( chef dell'anno Gault Millau) , Patricia Lenaour ( direttrice Gault Millau ) , William Ledeuil ( chef Ze Kitchen Galerie a Parigi)

mercoledì 16 febbraio 2011

Grazie chef ! E' morto Santi Santamaria.



Santi Santamaria l'ho conosciuto nel 1993 , poi tornai nel 1994 e nel 1995, a cavallo della sua ascensione alla terza stella. Poi ancora nel 2001, poi mi innamorai dei Roca, desculpe chef ! La sua cucina mi piacque da subito, ero in vacanza in Costa Brava in un luogo piuttosto distante da Sant Celoni. L'Hostal de la Gavina , a S'Agaro . La Gavina è un gabbiano, e del traffico folle delle stradine impervie della Catalunya può sorridere tra un tuffo e l'altro alla ricerca di un pesciolino del Mediterraneo. In auto è diverso, trovare le motivazioni per andare tre volte in una settimana in pieno agosto da Santi Santamaria a El Racò de Can Fabes, mentre migliaia di auto intasavano ogni pertugio stradale fu una piacevole sofferenza, vissuta come un graffio prima di un orgasmo . Secondo me ne valeva la pena arrivare da lui per quella cucina diretta e infallibile nei sapori dei prodotti e nel suo senso primario ma civilizzato di intendere una cucina a cavallo di questo secolo, e quindi ora sono sereno sapendo che anche lui intorno alla cinquantina ha staccato la spina, proprio appena diventato nonno. Chissà cosa gli è passato per la mente, chissà cosa per il cuore. Il mio solo rammarico è stato vederlo negli ultimi anni così tanto "allargato" e così tanto arrabbiato con Adrià. Adesso qui vorrei attaccarci un pezzo musicale di rilievo, ma in questo momento non mi viene in mente, sono le dieci e mezza, niente, niente di coerente e quindi chiedo gentilmente agli armadilli silenziosi se anche domani o un altro giorno trovassero una cosa carina da inserire anche dopo la pubblicazione, così, da tenere poi qui, nel nostro piccolo archivio di belle memorie delle belle persone che mi hanno dato un qualche motivo per tirare avanti.


gdf

... inserisco sia la proposta Giacobazzi che quella di ciciuxs, grazie ;-)





La cena del secolo in una atmosfera fin de siècle deja vue


- del Guardiano del Faro-

Avviso ai naviganti.

Per la sera del 6 Aprile 2011 è stata organizzata a Parigi, anzi, per la precisione nel "cadre" evocativo di Chateau de Versailles una cena definita sobriamente da alcuni media “La cena del Secolo” . L’Associazione dei Relais et Chateaux e de Les Grandes Tables du Monde vogliono così onorare e festeggiare l’inserimento da parte dell’Unesco del così detto “Pasto gastronomico alla Francese” tra i beni immateriali degni di essere ricordati dall’umanità intera. Sessanta tra i migliori cuochi del mondo cucineranno per 650 ospiti/clienti che dovrebbero pagare la somma di 650 euro per gioire della magnifiche creazioni di giovani o vecchi chef che hanno marcato lo scorso fin de siècle e l’inizio di questo, o allargando il senso del termine, al suo inquietante significato storico che lo intendeva dagli anni '80 al 1911, 1912, 1913. Parallelismi a specchio . Ovviamente i vini e lo Champagne saranno all’altezza dell’importanza dell’evento e scorreranno a fiumi per sottolineare questa atmosfera gaudente con il sorriso tirato quanto l’ultima notte sul Titanic o come la sera prima della presa della Bastiglia. Mi sembrano quelle esagerazioni deja vue della fine e dell’inizio dell’altro secolo dove si faceva finta di non sapere bene come andassero realmente le cose o forse si voleva appropriarsi di un facile e futile piacere in presa ad una cosciente isteria festosa, preambolo del baratro. I ricorsi della storia, come i cicli economici, come i riflussi, come quando nel 1911 si costruivano palazzi e hotel cinque stelle lusso in tutta Europa. Qui, dal Faro, riesco a vedere le strutture decadute o parzialmente abbandonate di almeno 6 dei 12 che segnarono quegli anni nella sola piccola Sanremo, all’epoca un villaggio di pescatori salita alla ribalta mondiale per la presenza di un Casinò e di personaggi di altissimo profilo internazionale che la frequentavano vivendo in quei meravigliosi ed enormi palazzi o in sontuose ville private. Il 1911 me lo immagino un po’ così, sovrastimato come un periodo di euforia vissuta contro ogni logica ed ogni buon senso , mentre l’Italia dichiarava guerra alla Turchia e contemporaneamente invadeva la Libia, mentre i tedeschi si presentavano ad Agadir con una nave da guerra compromettendo i rapporti con la Francia, mentre un imbianchino italiano rubava la Gioconda al Louvre, mentre tra i mille palazzi ed alberghi di lusso si inaugurava anche il Vittoriano nel cinquantesimo dell'Unità, mentre si festeggiava il buon esito del primo bombardamento della storia dell’aviazione, mentre in una tiepida primavera si inaugurava il Titanic.

gdf

martedì 15 febbraio 2011

la Grenache in Piemonte
















Chissa' se in Piemonte qualcuno ha mai piantato qualche filare di Grenache, mah, non me ne stupirei..
Nel frattempo il "famolo strano" di turno parte da un' originale idea di Hazel:
"proviamo ad abbinare la Grenache ed alcuni suoi biotipi ai sapori del Piemonte".
Detto fatto. E dove, se non nel cuore del Monferrato? Oltretutto la scusa è buona per andare a trovare Ezio Trinchero, un'amico ma anche un grande vignaiolo, con le idee molto chiare sulla strada da percorrere per fare dei vini sempre piu' autentici e legati ad uno straordinario terroir.
Ma eccoci al tema della giornata, difficile stilare una classifica di merito, le sfaccettature di questo vitigno collettivo sono molteplici e variegate. Impossibile stabilire un'ordine di stappatura, per millesimo si rischia di bere un Dettori a 18 gradi prima di un fresco e beverino Valleponci...andiamo allora per gradazione alcolica.
Valleponci apre le danze, gradevole e di facile beva, Domaine de Gassac '06, acidita' che spinge, da aspettare ancora qualche anno, Terziere '01 Massa Vecchia Alicante (con un po' di Malvasia Nera),ci è piaciuto per l'eleganza e la speziatura incisiva, Fabrizio Niccolaini non lo produce piu' e se lo volete bere ne trovate ancora qualche bottiglia al Consorzio di Torino.
Bello, strutturato e sapido l'Ogu dell'amato Panevino (mi sfugge pero' l'annata) alias Gianfranco Manca, qui forse in uvaggio con uva Monica, amo questo produttore e faccio fatica a non entusiasmarmi.
Il Perda Rubia '06, Cannonau in purezza sicuramente il piu' singolare e il piu' originale, sara' forse il piede franco ?
E poi ovviamente Gramenon, un campione di finezza, eleganza e frutto.
Il bello di questi vini e' vederli mutare costantemente nell'arco della giornata, specialmente il vino di Maule, il Tocai Rosso So San '08, dopo l'inizio di colla Vinavil, e' migliorato in maniera vertiginosa.
Ma direi che la gamma e' stata tutta interessante chi per un motivo chi per un altro... Altre idee per il meeting di marzo?

adoro quest'uomo e la sua giacca, è un biotipo di dandy pure lui....





L’aperitivo del “Dandy” : il Kir Royale



E' "L’aperitivo" del dandy, qui non si comincia neanche a discutere. Parigi o Montecarlo che sia ma non c’è storia per tutti gli altri aperitivi : kir royal s.v.p. Come lo aromatizziamo? La mia personale classifica vede spesso in testa il profumo di frutti rossi, freschi o in liquore. La buona abitudine sarebbe un fragrante e relativamente acido liqueur de framboise, ma anche un tannico melograno e una complessa mora se la giocano bene. Questi tre però fanno anche cambiare colore allo Champagne usato, invece il sambuco ti frega anche sotto l’aspetto visivo. Questo St. Germain invita a lasciarsi andare in mezzo alle abbondanti forme che ne sostengono il nostalgico messaggio di una bella epoca. Quindi, abusiamo senza ritegno, tanto è un epoca che non ci appartiene più, e soprattutto non mi appartiene più : “ La vie Parisienne en bouteille “ . Merci, stavolta pas de framboise sur les boulevards...

Allora, siamo d’accordo che più dandy di Brian Ferry non c’è nessuno, però uno forse c’era, nel senso che è stato così dandy da andarsene al pieno della forma , a 50 anni, e a Parigi…e allora Robert Palmer, però con un occhio di riguardo alla prima a sinistra, quella che non sta facendo assolutamente nulla su quella tastiera, però si fa capire molto bene lo stesso.

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lunedì 14 febbraio 2011

Nigella ed Elisa













gdf



Video del Frank grazie a Lucien :-)

Il Sinòira di Costigliole d'Asti


La stufa che vedete nell’immagine qui sopra fa parte della storia dell’alta ristorazione italiana. Questa stufa si trova nella cucina del ristorante oggi denominato Sinòira , a Costigliole d’Asti . Per decenni in questi piccoli spazi operò Lidia Alciati che con tutta la famiglia in aiuto alla cucina, o schierata in sala al servizio dell’entusiasta clientela, portò il “Guido di Costigliole” ad essere considerato per almeno due decenni uno dei migliori cinque ristoranti italiani.

Inutile insistere sullo stato d’animo che si prova entrando in questo locale disposto su tre piani: bar dell’ingresso a piano terreno e secondo piano interrato dove c’è la sala vera e propria, mentre scendendo ancora ci sarebbe il tesoro di cantina degli Alciati, e questo provoca una inevitabile strana emozione per chi come me frequentò il locale nei tempi d’oro. Ma anche senza il batticuore che provocherebbe la discesa nella caverna di Ali Babà, è già sufficiente scendere i pochi gradini che portano in uno dei due sottoscala più noti ai gourmet degli anni ’80 per annusare un’atmosfera vissuta in un felice passato. Un sotto scala degno dell’altro, anche se per una connotazione di cucina profondamente diversa. L’altro sotto scala stava a Milano in Bonvesin de la Riva.



Atmosfera giustamente cambiata, molto cambiata, anche se andare contro i conservatori piemontesi e far loro cambiare un idea diventa veramente un impresa durissima da affrontare. Riuscire a far intendere una cosa diversa, anche dopo anni, anche svecchiando e innovando gli ambienti con un vivo gioco di colori , modernizzando con decisione la mise en place e buona parte dell’arredamento senza svilire un valore certo di cucina .


Ma bando ad ulteriori slanci malinconici, perché la vivacità dei colori, la luminosità degli interni ( anche in basso), la felice mano in cucina, la gentilezza del servizio e la calibrata cantina invitano a vivere il gradevolissimo presente di questo locale. Forse per uscire definitivamente dal passato non sarebbe una cattiva idea salire al piano terra con un servizio ristorante/bistrot ancora più agile, che possa avvicinare di più il cliente dubbioso non ancora disposto a scendere con disinvoltura quei pochi gradini, spesso ancora intesi e riservati ad una grande serata piuttosto che ad una semplice ed appagante pausa pranzo.

Qui di seguito alcuni piatti molto convincenti tratti dal nostro menù di ieri, dove sintesi e concentrazioni di sapori non sono mancati, e dove il rapporto qualità prezzo teme pochi paragoni:


I migliori cardi dell'inverno questi del Sinòira, con classica fonduta e vezzoso ovetto di quaglia

Riuscito spunto di fusion in questo cous cous speziato con peperoni arrostiti e salsiccia al Barbera.


Gli immancabili Plin , qui in versione burro e salvia.

La morbida e saporita faraona al lardo con mele stufate.


Faticoso il rientro a casa dopo questa giornata, ma questo bel disco di Solomon Burke mi aiuta a rimanere sveglio e lucido. Lucien




Ristorante Sinòira
Via Umberto I , 27
Costigliole d'Asti
Tel . 0141 966012





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